Etica delle cure integrate

di Alfredo Zuppiroli, da HIMed di novembre 2011

«Dopo che la storia ci ha insegnato che spesso il possesso della Verità produce fanatismo, e che un individuo armato di verità è un potenziale terrorista, vien fatto di chiedere: il relativismo e il nichilismo sono davvero quel male radicale che si vuol far credere? O essi non producono forse anche la consapevolezza della relatività di ogni punto di vista, quindi anche di ogni religione? E allora non veicolano forse il rispetto del punto di vista dell’altro e dunque il valore fondamentale della tolleranza? C’è del bello anche nel relativismo e nel nichilismo: inibiscono il fanatismo» [1].

Le parole di Franco Volpi, troppo presto scomparso, ci aiutano nell’inquadramento del complesso tema del rapporto tra la cosiddetta “Medicina ufficiale, o accademica, o Biomedicina” – intendendo la medicina scientifica le cui regole istituzionalizzate e i cui dettati sono attualmente oggetto dell’operato della stragrande maggioranza dei medici occidentali, e non solo, e del relativo curriculum formativo universitario – e le cosiddette CAM (Complementary and Alternative Medicines). Come si può facilmente notare, nessuno di questi aggettivi interpreta appieno il senso della Medicina cui si riferisce, ed è anche obiettivo del presente documento quello di superare le inevitabili limitazioni che ognuna delle attuali definizioni presenta, per proporre una Medicina Integrata, frutto della sinergia tra esperti in discipline diverse.

A mio parere l’unica categoria culturale che ci può e ci deve accompagnare in questo insidioso cammino non può essere che quella della laicità. Evitiamo possibili equivoci e sgombriamo subito questo lemma da quel significato di militanza anticlericale che purtroppo lo sta caratterizzando nel dibattito che si svolge in Italia negli ultimi tempi. Ricordiamoci infatti che “laico” significa proprio il rifuggire da posizioni dogmatiche, comprese quelle del laicismo, significa esercitare il dubbio, argomentare sulle idee e sui fatti ispirandosi alla ragione, alla logica. Significa l’essere disposti a mettere in discussione anche le proprie convinzioni, a fare un passo indietro se questo serve a capire, a comprendere, a rispettare i diritti dei nostri simili. Essere laici significa riconoscersi in pieno nella parole di Norberto Bobbio: “Laico è chi si appassiona ai propri valori caldi quali amore, amicizia, poesia, fede, progetto politico, ma difende i valori freddi come la democrazia, la legge, le regole del gioco politico, che soli permettono a tutti di coltivare i propri valori caldi”. Ed è con questo atteggiamento “freddo” che la Regione Toscana ha imboccato da oltre dieci anni una rigorosa via di dialogo e di studio, nella prospettiva di una crescente integrazione delle CAM all’interno del Servizio Sanitario Regionale (SSR): si tratta senza dubbio dell’esperienza più significativa nel panorama italiano, che parte dalla constatazione che ormai nella società si è fatto strada il diritto di veder considerate globalmente le problematiche di salute. Da una parte i limiti terapeutici dimostrati dalla Biomedicina nei confronti di patologie, sicuramente non gravi rispetto alla speranza di vita, ma molto influenti sul benessere in generale, e dall’altra i rischi di possibili effetti collaterali legati a farmaci e/o dispositivi medici rendono ormai inevitabile un percorso comune, pena un’ulteriore incrinatura del rapporto medico-paziente, già troppo minato dal riduzionismo biologico e tecnico che troppo spesso caratterizza la Biomedicina.

A fronte di una modalità “laica” di approccio al delicato tema del rapporto tra Biomedicina e CAM, quale l’esperienza della Regione Toscana che vedremo oltre, ciclicamente compaiono sulla stampa d’informazione, ma talvolta anche sulle riviste scientifiche, vibranti attacchi contro ciò che non è “scientificamente dimostrato né dimostrabile”, con toni da fare invidia al più cieco dei fondamentalismi religiosi. Tali “pensatori” si sentono come dei paladini della verità scientifica, e partono lancia in resta contro ciò che rappresenta una minaccia alle loro rassicuranti e paradigmatiche certezze. Un esempio emblematico di una visione settaria e pregiudizialmente schierata ci è stato recentemente offerto da una rivista anche di buon livello culturale quale Bioethics, con un articolo che a cominciare dal titolo – “Against Homeopathy”2 – è tutto un programma. Non è infatti con le scomuniche preventive che si percorre il difficile cammino della conoscenza, dove è necessario inoltrarsi armati di tanta umiltà, profondo rispetto e laica curiosità. Se queste fossero le doti dell’autore in questione, potrebbe cominciare a riflettere proprio sul termine usato nel primo paragrafo – Paradosso – e scoprirebbe così che le basi teoriche dell’omeopatia gli risultano inaccettabili perché sfidano il suo paradigma epistemologico. Eppure, è anche con il paradosso che si può stimolare la riflessione, perché ci mette di fronte alla debolezza dei nostri strumenti intellettuali.

La strada del sapere è tortuosa, non procede lineare, e dunque non si può liquidare la teoria della memoria dell’acqua solo perché non è basata su alcuna “legge chimica o fisica conosciuta” ed ironizzando sul mancato “caos fisiologico” che dovrebbe determinarsi ogniqualvolta beviamo un bicchier d’acqua. Ancora, un minimo di onestà intellettuale vorrebbe che non si considerassero i risultati degli studi a favore dell’efficacia dell’omeopatia come “falsi positivi” solo perché questi ultimi possono verificarsi in qualunque studio: perché allora accettiamo acriticamente gli “altri” studi?
Infine, non si può dichiarare “ingiustificabile” un trial di ricerca nel campo dell’omeopatia solo perché questa è basata “su principi incompatibili con le conoscenza scientifiche attuali”. Con queste premesse il nostro sapere, pur infinitamente piccolo, sarebbe progredito ben poco, ed in proposito valgono sempre le chiare parole di Einstein: “La verità è ciò che sopporta la verifica dell’esperienza”. Sempre in questo articolo l’Autore bolla come “eticamente inaccettabile” il fatto che gli omeopati, e più in generale coloro che si muovono nell’ambito delle CAM, non agiscano con imparzialità ma “propongano” le proprie pratiche terapeutiche. Perché, solo gli omeopati peccano di autoreferenzialità?

L’esperienza della Regione Toscana

Abbandonando posizioni a-prioristiche e fideistiche, non possiamo non ribadire che la Medicina è Una e che per i differenti modelli di pratica medica non si può perseguire un’improbabile conciliazione, dati i paradigmi spesso irriducibili a livello teorico. Solo un approccio laico e pragmatico, e nello stesso tempo rigoroso e responsabile da parte di tutte le componenti in gioco potrà portare a realizzare lo scopo ultimo della Medicina, e cioè quello di promuovere la Salute della persona. Se è vero che ogni essere umano può e deve essere parte attiva nella cura della propria salute e non solo un oggetto passivo di interventi o un consumatore inconsapevole di farmaci o rimedi, qualunque sia il modello di medicina in gioco, non si deve dimenticare che un organismo ha armi per preservare la propria salute e per guarirsi e che tale potenziale può essere stimolato con adeguate risorse terapeutiche. Per raggiungere questi obiettivi si devono percorrere almeno quattro strade.

  • La libertà di scelta terapeutica da parte dei cittadini è un diritto che va affermato e tutelato, insieme al riconoscimento della libertà di cura per i medici
  • Si devono garantire appropriatezza ed efficacia delle cure, soprattutto per quelle offerte all’interno del servizio pubblico
  • Si deve perseguire la sostenibilità delle cure ed incoraggiare le scelte di stili di vita sani, per la promozione della salute individuale e della popolazione
  • E’ necessario un approccio globale alla persona che necessita di cura, di conseguenza deve essere valorizzata la centralità della persona e del suo vissuto nei percorsi diagnostico-terapeutici.

E’evidente, anche ad una prima lettura, come si tratti delle coordinate fondamentali di ogni buona cura, indipendentemente della specifica tipologia in questione, quattro punti chiave che non possono essere appannaggio esclusivo di una Medicina rispetto ad un’altra. Questi sono i quattro principi che hanno costituito i punti cardinali fondamentali per guidare il percorso della Commissione nella stesura del documento approvato nel 20093. Dovendo sottolineare gli aspetti bioetici fondamentali nel nostro viaggio verso una Medicina Integrata, non possiamo non ricordare un’altra serie di principi, anch’essa costituita da quattro categorie fondamentali, che rappresentano il fondamento di ogni ragionamento sulle ricadute etiche della Medicina.

Si tratta dei famosi quattro principi della Bioetica: Non Maleficità, Giustizia, Beneficità ed Autonomia. La Buona Medicina è quella che cerca di soddisfare al massimo grado sia il primo che il secondo gruppo di quattro principi.

“Nel sottolineare l’unicità della medicina, e soprattutto della buona medicina, è ferma opinione di questa Commissione che i differenti modelli di pratica medica non siano da confrontare a livello teorico, nella improbabile conciliazione di paradigmi spesso irriducibili, ma nella prassi, al letto del malato affetto da una specifica patologia, laddove il medico, nel perseguire il bene del suo paziente scevro da pregiudizi e secondo le sue fondate convinzioni scientifiche, valuta tali paradigmi alla ricerca dei rimedi maggiormente efficaci tra quelli disponibili, assumendosi poi la responsabilità anche di scelte eterodosse, da abbandonare tuttavia nei casi nei quali si impongano consolidate ed efficaci terapie” [4].

Cruciale, in questa ottica, è la trasparenza e l’onestà intellettuale che devono coinvolgere tutti gli attori in gioco (cittadini, operatori sanitari, informazione). In proposito,

“Se da un lato, dunque, in Toscana esiste la prospettiva di un incremento dell’impiego delle CAM in diversi settori della sanità, dall’altro al servizio pubblico viene chiesto un impegno per fornire un controllo stretto della qualità, efficacia ed appropriatezza di tale offerta, e di incentivare la ricerca in materia e il monitoraggio continuo degli effetti indesiderati. Questa prospettiva, a parere della Commissione Regionale di Bioetica, deve costituire il fondamento per ogni possibile integrazione tra approcci medici… Il criterio, ancora una volta, non può che essere unico per tutta la medicina, la quale deve sottostare ad un principio di equità che riguarda sia i criteri per la corretta allocazione delle risorse pubbliche investite nei servizi offerti, in particolare per le CAM (non pienamente supportate da prove di efficacia raccolte con i metodi comunemente adottati dalla comunità scientifica medica), sia i criteri di concedibilità dei singoli trattamenti di CAM a cittadini che ne facciano richiesta” [5].

Nel suo percorso in materia di CAM la Regione Toscana si è ispirata ai pronunciamenti ed alle raccomandazioni di importanti organismi sovranazionali [6]. In queste ultime indicazioni è sintetizzata un’esigenza che anche la Commissione di Bioetica ritiene imprescindibile: l’integrazione deve costantemente coniugarsi con i requisiti di qualità, efficacia e sicurezza propri di ogni percorso terapeutico, e quindi anche di quello ispirato alle CAM, e con gli obiettivi etici di una corretta politica della salute, anche nell’ottica, come già accennato, di una equa distribuzione delle risorse pubbliche per la salute. Su questa traiettoria si è posizionata dal 2002 anche la Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici e degli Odontoiatri (FNOMCeO) che nelle sue Linee Guida su medicine e pratiche non convenzionali [7] ribadisce che: “L’esercizio delle suddette medicine e pratiche non convenzionali è da ritenersi a tutti gli effetti atto medico e pertanto si ritiene:

  • essere le medicine esercitabili e le pratiche gestibili – in quanto atto medico – esclusivamente da parte del medico chirurgo ed odontoiatra in pazienti suscettibili di trarne vantaggio dopo un’adeguata informazione e l’acquisizione di esplicito consenso consapevole;
  • essere il medico chirurgo e l’odontoiatra gli unici attori sanitari in grado di individuare pazienti suscettibili di un beneficiale ricorso a queste medicine e pratiche, in quanto solo il medico chirurgo e l’odontoiatra sono abilitati all’atto diagnostico, che consente la corretta discriminazione fra utilità e vantaggio del ricorso consapevole a trattamenti non convenzionali;
  • essere in questa impostazione il medico chirurgo e l’odontoiatra gli unici in grado di evitare che le medicine e le pratiche non convenzionali vengano proposte e prescritte a pazienti senza possibilità di vantaggio, sottraendoli alle disponibili terapie scientificamente accreditate, sulle quali dovrà essere sempre aggiornato attraverso l’ECM;
    (omissis)
  • di richiedere con forza, per far corrispondere alla consistente domanda di medicine e pratiche non convenzionali, un coerente sviluppo di sistemi preposti alla tutela dell’efficacia e sicurezza, la costituzione di una Agenzia Nazionale composta da soggetti istituzionali quali: il Ministero della Salute, le Regioni, il MURST e la FNOMCeO. Tra i compiti principali da affidare a tale Organismo, che potrebbe articolarsi in analoghe strutture regionali, sono da prevedersi: …la promozione della ricerca di base e applicata, secondo le regole di buona pratica clinica, nelle aree esclusive e soprattutto in quelle integrate favorendo la conoscenza dei princìpi e dell’uso appropriato delle medicine e pratiche non convenzionali nella cultura medica, avvalendosi di finanziamenti propri e derivanti da soggetti pubblici e privati in ambito nazionale ed europeo…”.

L’informazione

La Medicina può essere vista come una perfetta metafora della società attuale, dove il “mercato” ha vinto e l’attenzione alle ricadute economiche è diventata da strumento a fine. Dietro a questo ci sono potenti motivazioni economiche: la società valorizza la tecnologia molto più dell’ascolto o della disponibilità a dare consigli. Di fronte ad un paziente che manifesta ansia, la scelta di somministrare subito un farmaco fa risparmiare tempo, fa vendere il farmaco stesso… Si tratta di un percorso completamente diverso dal cercare di stabilire il senso di quell’ansia, di interpretarne la portata e poi, solo dopo un adeguato tempo, passare alle strategie di cura. Sappiamo ad esempio che, a proposito dei consumi di alcune prestazioni sanitarie come gli interventi chirurgici minori, i cittadini meno informati sono quelli più sottoposti a procedure [8]. Non sono dunque solo le condizioni cliniche che determinano i “consumi” in medicina (e allora si parlerebbe di appropriatezza!), ma anche l’ignoranza che possono esistere alternative, magari anche più efficaci, e che si può ottenere salute anche senza “consumare” una determinata procedura diagnostica o terapeutica.

In proposito, nel sottolineare l’enorme responsabilità che abbiamo nell’informare correttamente i cittadini, dovremmo sempre tenere a mente, e discuterne volta per volte con i pazienti, che:

“Fare di più non vuol dire fare meglio… Una medicina sobria implica la capacità di agire con moderazione, gradualità, essenzialità e di utilizzare in modo appropriato e senza sprechi le risorse disponibili… La Medicina deve rispettare i valori, le aspettative ed i desideri delle persone, che sono diversi e inviolabili. Ognuno ha il diritto di essere quello che è e di esprimere quello che pensa… Una Medicina giusta… supera la frammentazione delle cure e favorisce lo scambio di informazioni e saperi tra professionisti”.

Queste sono alcune delle più significative enunciazioni contenute nel manifesto per la Slow Medicine [9], presentato il 29 giugno 2011 a Ferrara e che, giustamente, promuove concetti che non sono esclusivi per uno specifico “tipo” di Medicina, ma che riguardano l’intera pratica delle cure per la salute, che si tratti di CAM o di biomedicina.

Sul delicato tema dell’informazione è opportuno tornare al documento della Commissione Regionale di Bioetica della Regione Toscana:

“Per una giusta azione pubblica in materia di CAM, sono inoltre indispensabili alcuni prerequisiti attinenti la qualità dell’informazione che deve essere fornita da parte degli organi istituzionali a tutti i cittadini: essa deve essere da un lato veritiera e non propagandistica (basata cioè su concrete indicazioni e naturali limiti) e, dall’altra, tale da garantire equità di accesso attraverso la diffusione della conoscenza dei percorsi. Già con la Dichiarazione di Alma Ata (1978), l’OMS individuava nell’empowerment del cittadino e della società civile un fondamentale strumento per la promozione della salute: solo un cittadino consapevole, cioè che sa perché è stato informato, che è in grado di incrementare la propria conoscenza e partecipare alle decisioni che lo riguardano, è posto nelle condizioni di poter efficacemente scegliere ciò che è meglio per la sua salute. E’dunque fondamentale che le persone siano informate dei principi sui quali le CAM si fondano e sulle peculiarità delle stesse rispetto alla cosiddetta Biomedicina. Onde evitare che il ricorso alle CAM finisca per incrementare quel meccanismo di consumismo sanitario di cui già conosciamo i profili, è infine importante che sia ben chiarito che, almeno alcuni dei grandi sistemi medici sorti prima e cresciuti a fianco della Biomedicina occidentale, fondano i loro presupposti sulla teoria che sia possibile stimolare un recupero della salute attraverso l’avvio di una reazione di autoguarigione, altrimenti detta guarigione biologica. Al di là della fondamentale differenza dei paradigmi, dunque, è utile che il cittadino sviluppi la consapevolezza che oltre ad essere guariti dai farmaci, è possibile preservare la salute attraverso modificazioni degli stili di vita e che, quando la salute è compromessa, è possibile in alcuni casi aiutarsi a guarire anche con altri strumenti di recupero. E’dunque compito di ogni adeguata informazione socio-sanitaria formare in ogni individuo la consapevolezza che ogni essere umano può e deve essere parte attiva nella promozione della propria salute e nei percorsi di guarigione e non solamente attore passivo di interventi o consumatore inconsapevole di farmaci o rimedi, da qualunque medicina essi provengano.
Le pratiche di integrazione tra Biomedicina e CAM comportano nel concreto il confronto tra i paradigmi medici di riferimento; in questa direzione è da ritenere una importante risorsa considerare almeno due concetti che appartengono in senso stretto alle CAM, ma che ricorrono anche nella tradizione della stessa Biomedicina occidentale, e che devono essere oggetto specifico di ogni messaggio informativo:

  • la consapevolezza che un organismo ha armi per preservare la propria salute e per guarirsi (nei termini sopra illustrati) e che tale potenziale può essere stimolato con adeguate risorse terapeutiche;
  • l’accoglienza attenta della persona, del suo vissuto di malattia delle sue scelte e dei suoi valori, la considerazione dell’importanza della sua storia personale anche ai fini della effettiva efficacia degli interventi terapeutici (concetti ripresi di recente dalla Narrative Based Medicine”. [10]

La fortunata definizione di “Narrative Based Medicine” non tragga in inganno: da molto tempo la Medicina s’interroga sui limiti che il riduzionismo biologico porta con sé, La diversità non può essere equiparata alla malattia, l’anomalo al patologico, la medicina non può che avere una natura dinamica, anfibia, necessariamente obbligata all’impiego di tassonomie, spiegazioni e protocolli generali nel trattare il singolo, ma nello stesso tempo doverosamente guardinga nei confronti del rischio di assolutizzarli come se si trattasse di costrutti immutabili. E così la Disease non può confliggere ma solo integrarsi con la Illness e con la Sickness, secondo una prospettiva laica, dove l’agenda del paziente è un’occasione di potenziamento della relazione con i curanti e non una bandiera da sventolare in alternativa a quella della medicina. Ecco che ci vengono in soccorso gli avvertimenti che un grande medico quale Augusto Murri ci ha lasciato oltre un secolo fa: “…datemi una boccetta di urina, fatemi fare una coltura del sangue e vi dirò la diagnosi: pretese compassionevoli per la loro ignoranza”. [11]

Anche la letteratura ci offre una conferma attraverso la penna di Marguerite Yourcenar, quando mette in bocca ad Adriano chiare parole dalle quali risulta evidente come già allora l’attenzione del medico fosse tutta per gli aspetti oggettivi, biologici, mentre la dimensione “umana” restava sullo sfondo: “E’difficile rimanere imperatore in presenza di un medico; difficile anche conservare la propria essenza umana: l’occhio del medico non vede in me che un aggregato di umori, povero amalgama di linfa e di sangue”. [12]

La ricerca

Posizioni dogmatiche e fondamentaliste affermano che la ricerca nel campo delle Medicine Complementari non è praticabile, se non addirittura inutile e dannosa, mentre approcci ispirati ad umiltà e disponibilità alla conoscenza ritengono indispensabile che le CAM, in particolare quando le si voglia inserire nei Servizi Sanitari Pubblici, siano oggetto di ricerca di prove di efficacia e di sicurezza sperimentalmente comprovate. Alla visione sostanzialmente chiusa del Comitato Nazionale per la Bioetica, che in suo documento del 2004 rileva che

“se l’autonomia del paziente nella scelta terapeutica rappresenta certamente un valore fondamentale universalmente riconosciuto dalla bioetica, e se la libertà della ricerca scientifica va in ogni caso salvaguardata, la libertà di cura tuttavia non può prescindere dalle conoscenze scientifiche acquisite e convalidate, senza le quali non è possibile tutelare adeguatamente la salute del paziente garantendone l’informazione ai fini del consenso” [13], si contrappone lo spirito laico della Commissione Regionale di Bioetica della Regione Toscana [14], “ben consapevole del fatto che, sottoporre a criteri scientifici la valutazione dell’efficacia e della sicurezza delle CAM, incontra l’oneroso problema di definire in che misura le CAM possano essere sottoposte efficacemente ai parametri che classicamente sono stati definiti per le peculiarità della medicina accademica occidentale. La domanda che sempre più spesso viene posta, e per rispondere alla quale a livello internazionale molto si lavora, riguarda infatti oggi, non già la possibilità stessa di una sperimentazione in CAM, bensì la ricerca di standard che, sebbene non rispondenti completamente ai criteri imposti dall’Evidence Based Medicine (EBM), siano comunque adeguati a garantire il controllo scientifico delle CAM, nel rispetto delle peculiarità che ciascuna di esse propone. Il problema dell’insufficienza dei parametri EBM a valutare specifici ambiti della medicina, per altro verso, non si pone solo o prioritariamente per le CAM, ma anche per la valutazione dell’efficacia di alcuni settori della Biomedicina come, ad esempio, gli interventi di cure palliative.

La Commissione Regionale di Bioetica ha trovato su questa materia una perfetta sintonia tra le sue diverse componenti, proprio a partire dalla condanna di ogni atteggiamento di rifiuto preconcetto e non motivato, sia nel non voler considerare le CAM quale opzione possibile, sia anche da parte di chi rifiuta di sottoporre le CAM ad un controllo scientifico, portando a pretesto una presunta incommensurabilità dei paradigmi medici e dunque l’impraticabilità della ricerca scientifica in questo settore. La Commissione Regionale di Bioetica ritiene invece che tale percorso di ricerca scientifica debba essere raccomandato, incentivato, nel quadro complessivo di un impegno etico delle risorse pubbliche in sanità e concettualmente sostenuto dalle istituzioni.
La ricerca nel settore delle CAM, oltre agli studi osservazionali laddove applicabili, dovrebbe dunque concentrarsi su differenti tipologie di studi:

studi clinici controllati intesi a verificare efficacia e sicurezza di CAM in confronto a placebo;

studi clinici controllati intesi a verificare efficacia e sicurezza di CAM in confronto a farmaci allopatici corrispondenti (è ovvio che tali studi possono essere effettuati unicamente laddove sia evidente che la terapia convenzionale non sia di comprovata efficacia, esistano controindicazioni al trattamento convenzionale o la patologia presa in esame sia clinicamente di scarsa rilevanza;

studi clinici controllati intesi a verificare il valore aggiunto, in termini di efficacia, di CAM aggiunte alla terapia ufficiale corrispondente: è la tipologia di studi che la Commissione ritiene dovrebbe prioritariamente essere perseguita, studi in cui la CAM è aggiunta alla terapia tradizionale ed è confrontata con terapia ufficiale + placebo. Questa è infatti la prospettiva in grado di dimostrare il valore aggiunto della CAM integrata nella Biomedicina così come perseguita nel modello toscano.

La sperimentazione delle CAM, tuttavia, non può non prevedere la disponibilità ad una almeno parziale riconsiderazione dei criteri e i modelli proposti dalla pratica delle Evidence Based Medicine (EBM), che potrebbero in parte dovere essere adattati alle peculiarità proprie dei paradigmi proposti da ciascuna disciplina delle CAM. E’da precisare che non si intende qui prevedere per le CAM criteri differenti o un rigore attenuato per la ricerca di prove di efficacia e sicurezza, poiché la necessità di adeguamento del modello, sempre nel rispetto del rigore e della scientificità del metodo proposto per tutta la ricerca scientifica, è risultata utile e doverosa non solo per la volontà di rendere possibile il controllo delle CAM con criteri validati, ma per tutte le analoghe esigenze emerse in settori importanti della stessa medicina occidentale che con difficoltà si attagliano alle prerogative proprie dell’EBM. Tali standard, comunemente accettati dalla comunità scientifica sebbene sempre modificabili e migliorabili, sono coerenti ad alcune specialità di CAM, ma risultano inadeguati per altre. La valutazione dell’efficacia e della sicurezza della fitoterapia, ad esempio, è simile a quella della Biomedicina, tanto che in questo settore è possibile non solo reperire nella letterature scientifica sia studi clinici controllati che meta-analisi eseguiti con le metodiche tradizionali, ma anche rendere operativa una fitosorveglianza come accade nella Regione Toscana. Nel caso dell’omeopatia, invece, le EBM incontrano maggiori difficoltà, perché la modellistica su cui è costruita l’evidenza delle EBM non è idonea a cogliere gli effetti stimolanti su funzioni vitali indotti dalla somministrazioni di microdosi di sostanze. Esistono poi ostacoli specifici determinati dalle caratteristiche di alcune pratiche di CAM: nell’agopuntura, ad esempio, è impossibile condurre sperimentazioni in doppio cieco e l’uso del confronto con placebo, pur negli usi consentiti, comporta non pochi problemi”. In fondo, come per la ricerca in biomedicina, anche nell’ambito delle CAM dovremmo tener sempre presente la dichiarazione di Helsinki, quando recita che “la ricerca medica è giustificata se vi è una ragionevole probabilità che le popolazioni in cui la ricerca è condotta possano beneficiare dei risultati della ricerca” e che “nella ricerca su soggetti umani, le considerazioni correlate con il benessere del soggetto umano devono avere la precedenza sugli interessi della scienza e della società” [15].

Le CAM, con la loro peculiare attenzione all’esperienza individuale di malattia ed un approccio orientato più al “prendersi cura” che al “curare”, non dovrebbero avere problemi a soddisfare questi elementari requisiti.

Il rischio clinico

La qualità delle cure passa sempre di più attraverso la promozione della sicurezza del paziente. Ed in ambito di CAM appare subito evidente il rischio legato al fatto che il paziente si viene spesso a trovare in uno stato di clandestinità, diviso tra operatori sanitari che nella maggior parte dei casi si ignorano, non si conoscono e non vogliono conoscersi, non si relazionano e non vogliono relazionarsi, lavorano in ambiti chiusi, impermeabili alla reciprocità. Ed in questa situazione chi, se non proprio il paziente, corre il rischio maggiore? Spesso il medico “ufficiale” non è interessato a conoscere e non vuole essere coinvolto nell’ascolto di una scelta che il paziente ha fatto, e dunque si corre il rischio che, mancando una relazione professionale, il paziente riferisca all’“altro” medico solo una parte delle notizie che riguardano la sua storia clinica. Invece di un dialogo che non potrebbe che apportare benefici alla sicurezza ed alla salute del paziente, questi viene diviso tra due monologhi il cui esito è più probabilmente dannoso che fecondo. Si tratta di un rischio ben evidenziato anche dal Comitato Nazionale per la Bioetica: [16]

“Al dovere del medico di fornire al paziente tutte le informazioni indispensabili perché egli possa assumere in piena autonomia le proprie decisioni si affianca, come è noto, l’onere del paziente di fornire al medico tutte le informazioni possibili in suo possesso per garantire una corretta diagnosi e un’adeguata indicazione terapeutica. Nel campo delle medicine alternative questo dovere del paziente assume un rilievo cruciale in relazione alle possibili interazioni tra le sostanze prescritte secondo i paradigmi delle medicine alternative e quelle prescritte in base ai protocolli della medicina scientifica: tali interazioni possono impedire ai medici di effettuare una diagnosi corretta e di indicare la terapia ottimale per il paziente. Spesso il paziente è portato a sottovalutare il dovere di fornire queste informazioni, sia perché ignora i possibili effetti dei prodotti farmaceutici (che a volte assume autonomamente, senza il controllo medico), sia per una indebita, ma a volte insuperabile forma di ‘pudore’ nel riferire al medico che lo ha in cura la propria (a volte occasionale) adesione a un modello di medicina che egli sa da lui non condiviso. Da indagini attendibili risulta che in particolare i pazienti che fanno uso di antidepressivi regolarmente prescritti spesso, agendo di propria iniziativa, aggiungono coadiuvanti alternativi, ignorando che i prodotti naturali contro ansia e depressione possono avere effetti pericolosi se assunti contestualmente ad altri farmaci. Il CNB, nella consapevolezza della dimensione di questo problema, insiste sull’importanza di far comprendere all’opinione pubblica la necessità di fondare il rapporto medico-paziente su una reciproca e leale informazione quale elemento imprescindibile per la realizzazione di una vera “alleanza terapeutica”.

Purtroppo nello stesso documento si leggono posizioni di estrema chiusura alle CAM, in un certo senso “concesse” in caso di disturbi di lieve entità, testualmente “nel caso di forme morbose non gravi o di pazienti ipocondriaci o in fase di terapia palliativa”, ma di fatto da rigettare quando il gioco si fa duro. In particolare, a proposito di pazienti minori o incapaci si sostiene che “…l’impossibilità di ottenere o, comunque, di considerare valido il consenso a tali pratiche da parte di tali pazienti dovrebbe indurre i medici a suggerire sempre il ricorso a terapie scientificamente convalidate”. Una intelligente postilla osserva, in proposito:

“Se il medico … ha fiducia nelle medicine alternative, perché non ammettere che queste vengano usate anche per i bambini? Riflettendo su questo punto, mi sono chiesta perché non abbiano anch’essi il diritto di fruire della medicina in cui i genitori hanno riposto la loro fiducia e che vedono da loro usare? Una delle accuse che viene fatta alle medicine alternative è di non avere dimostrabili basi scientifiche. Ma per avere basi scientifiche occorrono ricerche e finanziamenti di natura la più diversa, dalle industrie private agli organismi pubblici statali, cui le medicine alternative finora non hanno avuto se non limitato accesso. Ma i bambini ritengono che è valido (buono) solo quello che vedono fare dai genitori e, pur avendo la capacità di avere un proprio consenso informato, fanno proprio quello dei genitori e accettano con maggiore fiducia le medicine alternative che vedono da essi usare che non quelle prescritte da un medico diverso, anche se ‘scientifiche’” [17].

Se dunque il paziente deve essere tutelato nella sua libertà di scelta, resta il rischio che lasciando tutta la responsabilità di un intervento di salute soltanto al paziente si possa delegargli anche la scelta di quale sia la soluzione più appropriata per quello specifico problema. Il paziente non è un soggetto autonomo portatore di diritti a-priori, deve invece essere educato nel suo rapporto con la sofferenza e la malattia. Sappiamo che i percorsi clinici sono determinati spesso dal tipo di struttura cui il paziente si rivolge, invece che dalle sue reali esigenze cliniche. Dunque il rischio, la probabilità che un evento accada, è già predeterminato dalla prima scelta del paziente. E come possiamo fidarci che la scelta del paziente, magari orientata da mode, da abitudini o da fatti contingenti, sia quella giusta? Inoltre, indipendentemente dalla scelta che inizialmente fa il paziente, come possiamo garantire che il percorso successivo sarà quello più appropriato ed efficace per il suo bisogno clinico, se i medici cui si rivolge sono stranieri tra loro, non si (ri)conoscono, anzi spesso si avversano? Si parla tanto di empowerment del cittadino, ma tale concetto dovrebbe essere esteso a tutti noi che operiamo nell’ambito della Sanità!

Purtroppo ci dimentichiamo troppo spesso delle parole di Karl Popper:

“Il medico tuttavia deve convincersi con umiltà che nonostante tutto continua a operare in condizioni di probabilismo, perché tutta la conoscenza scientifica è ipotetica e congetturale. Quello che possiamo chiamare il metodo della scienza consiste nell’imparare sistematicamente dai nostri errori, in primo luogo osando commetterli, e in secondo luogo andando sistematicamente alla ricerca degli errori che abbiamo commesso”.

In proposito, una formidabile occasione per migliorare la qualità delle nostre cure ci è data dal consenso informato. Al di là della sua degenerazione ad evento burocratico, quando viene ridotto a pratica formale che accompagna le procedure invasive, il suo vero e profondo significato consiste nel condividere tra medici e pazienti ciò che si conosce e ciò che si ignora sul tema in questione. In moltissimi casi il percorso verso la salute può presentare diverse opzioni, che devono essere discusse con il paziente per arrivare alla scelta migliore nel contesto specifico. Altrimenti si resta in pieno paternalismo, dove il paziente è oggetto passivo di scelte dettate dall’autorità professionale del medico.

Diversi sono i pazienti perché diversi sono gli ambiti sociali, antropologici, culturali nei quali vive. Non esistono malattie, esistono solo malati, diceva Rousseau, ciascuno unico ed irripetibile nelle sua visione di salute e di malattia, dunque di cura. Ad esempio, qualcuno si accosterà all’omeopatia perché ha bisogno di un modello di cura e di salute che non trova nella Biomedicina e che sente più adatto a se stesso. Se è il cittadino che alla fine è chiamato a scegliere tra diverse opzioni, non solo all’interno di un modello di Medicina, ma anche tra diversi modelli, è doveroso che sia messo nelle condizioni di poter scegliere mediante un’informazione chiara e completa. Sappiamo ad esempio come in Toscana il ricorso alle CAM sia crescente con l’aumento del grado d’istruzione, risultando significativamente più elevato nei laureati rispetto agli altri, e che il ruolo del medico di Medicina Generale, pur in crescita, rappresenti solo un terzo dei casi d’informazione in tema di CAM, dopo fonti personali rappresentate da parenti/amici e da mezzi d’informazione vari.

E come possiamo informare adeguatamente un cittadino, se come professionisti ignoriamo nella maggior parte dei casi cosa significano le CAM? A partire dai corsi accademici, la formazione resta purtroppo a compartimenti stagni, con la conseguenza che il rischio per la sicurezza del paziente aumenta. Si torna alla categoria della laicità che sempre deve ispirarci: saremo tanto migliori professionisti quanto più saremo capaci di fare un passo indietro, di fronte ad uno specifico caso clinico, riconoscendo che un’“altra” Medicina in questo caso può risultare più appropriata ed efficace. Se la Biomedicina è troppo spesso malata di standardizzazione, le CAM sono malate di eccessiva individualizzazione, prive di un confronto inter- ed intradisciplinare. Se per ragioni di evoluzione politica e sociale non possiamo non adattarci alla multiculturalità, ciò vale anche per le diverse culture mediche. Therapeuo in greco vuol dire “essere al servizio di”, il terapeuta esercita una professione al servizio di un’altra persona. Occorre dunque (ri)conoscere sempre di più l’altro da noi, sia che si tratti del paziente che vuole fare scelte che non ci corrispondono, sia che si tratti di un “altro” professionista. La Medicina Ospedaliera è in questo senso avvantaggiata, in quanto si lavora sempre più in equipe, con figure professionali diverse che insieme concorrono nella cura. Si tratta ora di abbattere gli steccati ancora troppo alti che esistono nella miriade di strutture in cui si esercita la Medicina fuori dagli ospedali!

Conclusioni

Dobbiamo avere il coraggio di camminare insieme, operatori sanitari e cittadini, consapevoli che le aspettative del malato non sempre coincidono con i suoi diritti (né tanto meno quelle dei professionisti…), e che talora perverse logiche di mercato dilatano l’ambito dei bisogni a quello dei desideri, fino a quello dei capricci. “La medicina, come la scienza, è un modo del potere”18: è molto difficile, ma abbiamo il dovere di non abbassare la guardia. Dobbiamo dunque smascherare le insidie che sempre più forti sono tese ai Servizi Sanitari Nazionali ed in generale ai sistemi di Welfare, denunciare la quasi totale assenza delle amministrazioni pubbliche nel promuovere la ricerca indipendente dai condizionamenti del mercato, contrastare la pervadente presenza della ricerca orientata ai profitti del mercato nelle sperimentazioni cliniche e nella formazione dei medici, opporci ad una comunicazione più o meno consapevolmente manipolata, intesa sia come comunicazione dei media che come comunicazione fra medico e paziente, resistere alle influenze esercitate dalla grande industria non solo farmaceutica o elettromedicale, ma anche chimica e agroalimentare, combattere la nocività dei luoghi di lavoro, correggere le disuguaglianze sociali nei confronti della morbilità e della mortalità, proteggere l’ambiente e l’ecosistema, dunque la nostra salute, dalle offese crescenti…

Biomedicina e CAM devono essere alleate, altro che “alternative”, in questo slancio etico di civiltà!

Con una Medicina immersa nel Mercato, il rischio è quello di parlare solo il linguaggio dei (falsi) diritti, mentre si deve cominciare ad avere il coraggio di parlare, riguardo alla salute, anche di doveri. In particolare, il primo dovere è proprio quello di riconoscere i diritti degli “altri”, e dunque riconoscere il “limite” entro il quale ci dobbiamo e possiamo muovere, secondo un laico spirito di rispetto, di valorizzazione di identità tra loro diverse, non “contro” ma “verso” chi è altro da sé. Se sapremo coniugare diritti e doveri che ci riguardano tutti, nessuno escluso, secondo le regole del rispetto reciproco, avremo fatto un bel passo avanti nel cammino verso più alti livelli di eticità.

Non tutto ciò che conta può essere contato,
e non tutto ciò che può essere contato conta.

Albert Einstein

Bibliografia

  1. Volpi F. Contro Nietzsche. L’ accusa del Papa al filosofo nichilista, la Repubblica, 10 aorile 2009.
  2. Smith K. Against Homeopathy. Bioethics, 2011, Feb 14. doi: 10.1111/j.1467-8519.2010.01876.x.
  3. Commissione Regionale di Bioetica, Regione Toscana. Le Medicine Complementari, 11 novembre 2009.
  4. Ibidem, vedi nota 3
  5. Ibidem, vedi nota 3
  6. Si veda in particolare: a) “Guidelines on Developing Consumer Information on Proper Use of Traditional, Complementary and Alternative Medicine” (WHO, Geneve 2002); b) la raccomandazione del Consiglio d’Europa n. 1206 del 1999, che invita gli stati membri ad inserire le CAM a pieno titolo nei SSN; c) la risoluzione del Parlamento europeo n. A 400 75/97 che evidenzia: “la necessità di garantire la più ampia libertà possibile di scelta terapeutica, assicurando (…) anche il più elevato livello di sicurezza e l’informazione più corretta sull’innocuità, la qualità e l’efficacia di tali medicine”; d) il Parlamento e il Consiglio Europeo hanno poi adottato, sempre nel 2007, la Decisione che istituisce un secondo programma d’Azione Comunitaria in materia di salute 2008-2013 (in sigla FP) riportato nella Gazzetta ufficiale Europea L305/5 20-11-2007), nel quale si legge che “il programma dovrebbe prendere atto dell’importanza di una impostazione olistica della sanità pubblica e tenere in considerazione nelle sue azioni, ove appropriato e in presenza di prove scientifiche o cliniche di efficacia, la medicina complementare e alternativa”.
  7. Documento del Consiglio Nazionale della FNOMCeO, Terni 18 Maggio 2002.
  8. Gianfranco Domenighetti: Il mercato della salute: ignoranza od adeguatezza? Analisi degli effetti dell’informazione sul mercato sanitario. CIC Edizioni Internazionali, Milano, 1995.
  9. Manifesto per la Slow Medicine, www.slowmedicine.it.
  10. Ibidem, vedi nota 3.
  11. Augusto Murri, in Pagnini A. Filosofia della Medicina. Epistemologia, ontologia, etica, diritto. Carocci, Roma, 2010.
  12. Marguerite Yourcenar. Memorie di Adriano, Einaudi, Torino, 1988.
  13. Comitato Nazionale per la Bioetica, Mozione su medicine e pratiche non convenzionali, 23 aprile 2004.
  14. Ibidem, vedi nota 3.
  15. Dichiarazione di Helsinki, World Medical Association, www.wma.net.
  16. Comitato Nazionale per la Bioetica, Le medicine alternative e il problema del consenso informato, 18 marzo 2005.
  17. Prof. ssa Renata De Benedetti Gaddini, Postilla al Documento CNB (vedi nota 12).
  18. Maccacaro Giulio A., Per una medicina da rinnovare. Scritti 1966-1976, Feltrinelli, Milano, 1981.

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