Ormesi e Medicina Integrata

di Andrea Dei, su HIMed del novembre 2011

Ormesi etimologicamente significa stimolazione e personalmente ho sempre trovato questa definizione piuttosto riduttiva tenuto conto del panorama che la sua comprensione permette di abbracciare. [1]

In sintesi con questo termine si vuole indicare che un organismo vivente, se perturbato dall’esterno, reagisce in modo qualitativamente diverso in funzione dell’intensità della perturbazione. Nell’ambito dello scopo di questo contributo questo significa che, per esempio, l’effetto dell’ingestione di una sostanza tossica dipende dalla quantità di sostanza: a basse dosi si osserva una modesta stimolazione delle funzioni dell’organismo mentre ad alte dosi si ha un effetto inibitorio, ovvero un effetto opposto. Questo comportamento è una caratteristica che dipende dalla natura stessa dell’organismo vivente e il numero degli esempi riportati ha fatto suggerire che esso costituisca una legge biologica generale.

Personalmente ho sempre sostenuto l’ovvietà di quest’ultima tesi e ho sempre guardato l’ormesi con una certa indifferenza trovandola del tutto naturale, quasi fosse un lemma della filogenesi e dell’ontogenesi di ogni organismo vivente. Tuttavia la sua accettazione da parte della comunità scientifica non è ancora totale anche se il processo è facilmente giustificabile da un punto di vista termodinamico e francamente mi sembra che il discuterne sia solo frutto di pregiudizio. Il grande merito dell’ormesi è infatti quello di aver messo in evidenza l’inadeguatezza dei modelli farmacologici e tossicologici postulati dalla medicina ortodossa.

La mancanza di rispetto per l’accademia è sempre colpa grave, specie quando l’ortodossia misura i propri successi seguendo i criteri che lei stessa stabilisce, ma diventa delitto capitale se la salute è considerata una merce in una economia di sviluppo, La storia dell’ormesi nel XX secolo costituisce pertanto un incredibile esempio di sopraffazione culturale da parte di una comunità accademica che ha cercato di ignorare e di far dimenticare una fenomenologia perché in contrasto con la propria convenienza e i propri interessi di bottega. Tuttavia se questa mercificazione ha portato alla crisi della medicina occidentale, come abbiamo sottolineato in altri contributi di questo documento, è mia opinione che la rivalutazione dell’ormesi e di tutti gli insegnamenti che questa fenomenologia ha offerto alla nostra considerazione possa permettere di aprire nuove prospettive nel campo della farmacologia tradizionale e concepire un modello terapeutico meno innaturale di quello fornito dalla biomedicina del ventesimo secolo. In questo senso l’ormesi diventa una colonna portante della Medicina Integrata, in quanto permette di offrire una base razionale spesso giustificativa di alcune caratteristiche delle tecniche terapeutiche che non appartengono alla biomedicina. Ma anche in questo caso spesso il principio dell’intelligo ut credam per i medici esperti di tali tecniche è da subordinare al credo ut intelligam di spirito fideista e non è sorprendente che spesso il concetto di ormesi sia stato osteggiato proprio da coloro che in tale concetto avrebbero dovuto trovare la chiave di volta dei loro tenets terapeutici. [2-8] Tuttavia la semplice descrizione della relazione farmacologica dose-risposta e la sua giustificazione forniscono ampia materia di riflessione per indirizzare lo sviluppo della medicina futura.

La relazione dose-risposta

Il ruolo della farmacologia è per principio quello di capire qualitativamente e quantitativamente gli effetti delle molecole di un farmaco sulla fisiologia dell’intero organismo. Nella pratica le terapie farmacologiche sono indirizzate a indurre uno stimolo misurabile o l’inibizione di meccanismi biologici come risultato di una interazione con un farmaco. Gli studi pertanto sono volti a stabilire il meccanismo di perturbazione indotto dalla molecola ed a sviluppare, in concorso coi chimici, altre molecole che possano indurre perturbazioni più convenienti. Nella biomedicina questo punto di vista nasce dall’aspettativa che il malessere sia dovuto all’esistenza di un meccanismo biologico-chiave che non funziona come dovrebbe. Pertanto l’inibire o almeno il limitare questo meccanismo offre la possibilità di rimuovere il malessere. Per tale motivo il concetto centrale della farmacologia accademica è associato allo studio della interazione farmaco-recettore e, una volta stabilita l’efficacia del trattamento, alla determinazione della sua concentrazione ottimale nel plasma e nei tessuti. Tale tipo di studi è quindi volto a definire la correlazione dose-risposta.

Questa visione parte dall’ipotesi che la risposta dei diversi individui al trattamento farmacologico dovrebbe essere se non proprio la stessa, almeno simile, in quanto viene a interessare sempre lo stesso meccanismo biologico. Pertanto si assume l’esistenza di una approssimativa correlazione fra il numero di molecole perturbanti (la dose) e il livello di inibizione indotta (la risposta). Poiché a livello applicativo è auspicabile una relazione lineare fra le due grandezze in quanto permette di ottenere una valutazione più diretta dell’efficacia di un trattamento terapeutico, si cerca di utilizzare molecole che si leghino in maniera specifica a un certo recettore, in maniera tale che quella specifica interazione che porta alla formazione dell’addotto farmaco-recettore diventi il meccanismo dominante. Quando questo si verifica la relazione dose-risposta è descritta dall’equilibrio acido-base:

A + B = A-B

la cui costante è definita in farmacologia come:

K = [A][B][A-B]-1

cioè dal reciproco termodinamico.

In questa espressione [A] è la concentrazione del farmaco libero, [B] è la concentrazione dei recettori non occupati e [A-B] è la concentrazione dell’addotto farmaco-recettore. Ne consegue che l’attività farmacologica è legata alla frazione dei recettori occupati [A-B] / CB, dove CB = [B] + [A-B].

Una descrizione più appropriata dovrebbe implicare sia l’eventualità dell’esistenza di effetti cooperativi sia considerazioni cinetiche e, soprattutto, dovrebbe tenere conto degli effetti biologici indotti dall’interazione della molecola con il recettore portando alla distinzione fra agonisti e antagonisti. Tuttavia per i nostri scopi questo semplice modello termodinamico offre la possibilità di definire la filosofia della biomedicina attraverso una curva che mostra l’andamento della risposta in funzione del logaritmo della concentrazione del farmaco. L’andamento aspettato è sigmoidale, partendo dal presupposto che l’effetto inibitorio sia pressoché nullo a basse dosi, diventi apprezzabile a partire da un certo valore (detto valore di soglia), cresca al crescere della concentrazione del farmaco fino ad un valore limite di saturazione che è quello corrispondente alla totale occupazione dei recettori. Una volta definito come ED50 il valore della dose che porta a una occupazione del 50% dei recettori, si può mostrare che nell’intervallo log[A] = logED50±1 la relazione è lineare, se non sono presenti effetti cooperativi. Questo intervallo di concentrazioni è quello che si suggerisce utilizzabile a livello terapeutico. In altre parole la biomedicina considera la perturbazione fisiologica indotta da un farmaco in un intervallo di tre o quattro unità logaritmiche, postulando ininfluenti le concentrazioni sotto la concentrazione soglia e inutili, dannose o addirittura letali quelle troppo elevate.

I limiti del modello convenzionale

Il grande merito del modello sta nella sua semplicità e questo è il motivo del suo successo in biomedicina a partire dall’inizio del XX secolo. Bisogna però sottolineare che esso ha fortemente limitato lo sviluppo della farmacologia nel senso che, dato un sistema farmaco-recettore, si viene a predeterminare l’intervallo di concentrazioni da studiare e quindi la dose di farmaco da assumere. Va inoltre considerato che esso ha portato la biomedicina a suggerire dosi di farmaco che contenevano un numero di molecole incredibilmente più grande dei recettori con i quali il farmaco era destinato a interagire. Per esempio si pensi che una pasticca di aspirina contiene un numero di molecole cento milioni di volte maggiore delle cellule dell’organismo umano e che se si desiderasse somministrare un numero di molecole di farmaco uguale al numero delle cellule ci si dovrebbe limitare a circa un miliardesimo di grammo. Tuttavia il grande limite del modello è un altro. Infatti, pur partendo dall’ipotesi che a livello biologico si abbia la stessa reazione per tutti gli individui, di fatto le risposte osservate sono diverse da individuo a individuo e quel che è peggio, oltre a procurare benefici, spesso hanno effetti dannosi. In pratica l’efficacia di un farmaco raramente va oltre il 60% e agli effetti benefici si aggiungono spesso effetti indesiderati. Negli altri casi o non si ha risposta o si hanno solo effetti indesiderati. Si stima che circa il 5-10% dei ricoveri ospedalieri sia dovuto a questi ultimi effetti.

E’ ragionevole pensare che il parziale fallimento del modello sia da attribuirsi all’insufficienza dell’ipotesi iniziale. L’interazione della molecola del farmaco con il recettore è solo il primo degli eventi che si verificano nelle cellule. Le attività biologiche delle cellule non seguono un andamento lineare e quindi anche le risposte conseguenti all’interazione del farmaco con il recettore possono non essere lineari. Nella pratica, alla formazione dell’addotto segue un serie di processi catalitici e di autoregolazione che avvengono seguendo una molteplicità di percorsi a cascata che vengono dettati dal software che determina l’omeostasi. Poiché questo è funzione del codice genetico, è abbastanza ovvio che le risposte individuali possano essere differenti.

Per finire, ci sono diverse evidenze che molte risposte della cellula non siano variabili entro un certo intervallo, ma che debbano essere spesso descritte come on-off, ovvero come se la cellula potesse esistere in due soli stati (quantal description). Questo non è solo il caso della replicazione o dell’apoptosi, ma anche dell’attivazione di gruppi di geni o la promozione di meccanismi di feed-back positivo. Pertanto il fallimento del modello sta nell’aver supposto una linearità nella relazione dose risposta. Il risultato è che, sebbene negato spesso dall’ortodossia, molti farmaci danno origine a effetti non desiderati dovuti a immunosoppressione o immunostimolazione con conseguenti seri danni alla salute del paziente.

Non-linearità della relazione dose-risposta

Negli studi farmacologici usuali l’intervallo di concentrazione vicino al valore di soglia non è studiato perché troppo lontano dai valori ritenuti utilizzabili a livello terapeutico. C’è invece da osservare come in questa zona il farmaco induca una reazione opposta a quella osservabile a alte concentrazioni. In altre parole, la risposta dell’organismo non è monotona, ma in funzione della concentrazione si possono osservare sia effetti stimolatori che inibitori, a basse e ad alte dosi, rispettivamente. Questo comportamento può essere riassunto dicendo che la curva è a forma di J piuttosto che una sigmoide. L’effetto stimolatorio in generale è modesto e spesso difficile da misurare con precisione a causa del rapporto segnale-rumore. Inoltre spesso l’effetto è funzione del tempo e ad un effetto inizialmente inibitorio ne segue uno stimolatorio. In ogni caso da un punto di vista della farmacologia tradizionale esso costituisce una complicazione perchè fa richiedere l’introduzione di un meccanismo aggiuntivo a quello operativo a alte concentrazioni. Per questo motivo è trascurato o denominato “effetto paradosso”, quasi fosse una curiosità peraltro non rilevante. C’è da notare che cento anni fa costituiva la base della legge di Arndt-Schulz e sessanta anni fa sia stato etichettato col nome di “ormesi”, anche se era stato cancellato dai libri di farmacologia. Uno studio sistematico condotto da Edward Calabrese negli ultimi quindici anni ha mostrato come esso costituisse una regola piuttosto che una eccezione.9 Una volta accertata la sua fondamentale importanza a livello tossicologico, anche la farmacologia non ha potuto più permettersi di trascurare il fenomeno. Le tecniche sperimentali a nostra disposizione permettono oggi di iniziare il viaggio nel regno delle microdosi.

L’evidenza sperimentale

Negli ultimi anni sono stati pubblicati numerosissimi lavori riportando una serie di risultati sperimentali supportanti senza ambiguità il modello di reattività ormetica. I lavori riguardano fondamentalmente la tossicologia dell’ambiente, problemi dell’accrescimento, terapie anti-invecchiamento, risposte immunitarie, effetti delle radiazioni ionizzanti e la correlazione fra il modello ormetico e l’omeopatia. Il denominatore comune di questi studi è la complessità dell’identificazione e dell’interpretazione dei meccanismi biologici sottesi alla fenome- nologia osservata. C’è da notare che molti dei dati osservati sono limitati dalla sensibilità delle tecniche di indagine utilizzate che ha limitato fortemente la dimensione degli studi.

Personalmente, rimuovendo per una volta la modestia, ritengo che uno degli studi più significativi sia stato quello recentissimamente pubblicato da un gruppo di ricercatori dell’Università di Firenze che mi vedeva coinvolto come coordinatore, perché tale studio ha permesso di studiare a livello molecolare l’effetto di un agente chimico in un intervallo di concentrazioni mai studiato prima di allora.10 Lo studio riguarda l’effetto di soluzioni diluite di ione rameico sull’espressione genica del DNA. Questo studio, condotto utilizzando la tecnologia dei microarray, ha permesso di confrontare le espressione dei geni trattati con soluzioni di rame in concentrazione variabile fra 10 alla -6 e 10 alla -17 M (cioè fra circa 0,06 mg/litro e 60 miliardesimi di miliardesimi di grammo per litro) con quelli di geni trattati con acqua senza rame. E’stato osservato che numerosi gruppi di geni da sovraespressi diventavano sottoespressi al variare della concentrazione e viceversa. Così la produzione di alcune metallotioneine è stimolata a alte concentrazioni (10 alla -6 – 10 alla -9 M) mentre è inibita a basse, mentre la produzione di altre metallotioneine viene stimolata solo a basse concentrazioni (10 alla -13 – 10 alla -16 M). Tale variazione di espressione obbedisce al modello ormetico. Lo studio suggerisce che almeno quattro gruppi di geni mostrano una significativa variazione di attività in funzione del numero di ioni rame presente e come tale attività sia modulata da un numero di agenti perturbanti incredibilmente piccolo, come viene suggerito dal fatto che il numero dei geni sovra o sottoespressi a basse concentrazioni è sempre rilevante (3-4 %).

L’origine dell’ormesi

Ogni organismo vivente è descrivibile termodinamicamente come un sistema aperto in uno stato stazionario di non equilibrio. Poiché lo stato di equilibrio è lo stato più stabile, ogni sistema in non equilibrio tende spontaneamente a raggiungere tale stato, ma, tenuto conto che esso coincide con la morte, il processo vitale consiste nel cercare di opporsi al raggiungimento di tale traguardo. I geni, veri padroni quasi immortali dell’organismo, si adoperano cooperativamente a promuovere tale opposizione in tre modi: a) cercando di mantenere se possibile lo stato stazionario di non equilibrio, b) adattandosi ai cambiamenti esterni e c) riproducendosi.

Lo stato stazionario viene mantenuto da un continuo scambio di materia e energia nell’interazione con l’ambiente che lo circonda.11 Queste interazioni implicano sempre variazioni strutturali del sistema e in tal senso si può dire che sono una fonte continua di danni che alterano il sistema originale di comunicazione. Per mantenere lo stato stazionario l’organismo pertanto reagisce o riparando i danni o attivando dei percorsi alternativi in grado di sostituire il meccanismo danneggiato. In ogni caso quando a seguito di un’interazione con l’esterno il sistema è spostato dal suo stato stazionario, esso tende a reagire nel senso di opporsi alle variazioni indotte dall’interazione con l’agente esterno allo scopo di ristabilire lo stato stazionario originale. Il punto chiave è che il sistema reagisce in maniera tale da mantenere inalterata la sua identità, ovvero la sua organizzazione strutturale. [12]

L’espressione di questa autoreferenza è data dall’omeostasi, che altro non è che un sistema di autoproteggersi dalle interazioni con l’ambiente. Ma per comprendere veramente l’organismo vivente bisogna ricordarsi che esso è sempre il risultato di una evoluzione che viene ad essere definita dalle interazioni con l’ambiente che lo circonda. Da questo ha origine la cosiddetta plasticità biologica ovverosia la mutazione di un fenotipo per effetto degli agenti esterni, implicando un continuo aumento della possibilità di elaborare le informazioni dell’ambiente. In altre parole il software del sistema non è fisso come nei nostri computer ma, seguendo la concezione di Alan Turing, è in grado di adattarsi in funzione del problema che gli viene posto. Le conseguenze possono essere limitate a un solo organismo nel corso della sua esistenza o portare a una variazione genetica, con trasmissione nella riproduzione.

Deve essere altresì sottolineato che le variazioni strutturali indotte dall’ambiente possono essere diverse da organismo a organismo poichè esse dipendono anche dalle variazioni subite in precedenza. In questo senso la vita è un continuo processo di apprendimento e ogni interazione quindi viene elaborata in maniera diversa dai singoli organismi viventi, inducendo spesso risposte autonome. [12] Tale concetto è estremamente importante a livello terapeutico.

Questa visione trova il suo supporto razionale sia a livello termodinamico col principio dell’entropia negativa introdotto da Schrödinger, che intuì l’esistenza di un sistema genetico concertato col suo bellissimo ossimoro del “cristallo aperiodico”, sia a livello della teoria dell’informazione nella formulazione di Brillouin, sia a livello biologico col concetto di organizzazione come risultato di “caso e necessità” introdotto da Monod. La sintesi di questa visione teleonomica si ritrova nel concetto di organismo espresso come “sistema dissipativo auto-organizzato lontano dall’equilibrio” di Ilya Prigogine [11] e “sistema autopoietico” di Maturana e Varela. [12]

In pratica tutte queste analisi portano alla medesima conclusione: la vita è dovuta all’esistenza di un sistema cooperativo organizzato che perde spontaneamente il suo carattere ordinato col tempo o sotto l’effetto di una perturbazione esterna, a meno che l’organismo non sia in grado di usare energia e materiali disponibili per ricostituire tale carattere. In tal caso oltre a proteggersi, è in grado di sviluppare nuovi accorgimenti per contrastare le perturbazioni che ne minacciano il funzionamento o l’esistenza (evoluzione). Le unità costituenti tale sistema (cioè le cellule) devono soddisfare due requisiti. Il primo è che devono contenere intrinsecamente lo stesso software delle altre (cioè il DNA) che fornisce tutte le informazioni di cui possono avere bisogno e il secondo è che devono essere in grado di comunicare la loro attività che viene svolta seguendo le informazioni fisiche e chimiche delle cellule circostanti (cooperatività).

Come abbiamo detto, ogni interazione con l’ambiente implica sempre variazioni strutturali. Questo avviene respirando ossigeno, assumendo cibi, interagendo con antigeni o più semplicemente come interpretazione di una funzione cognitiva. Tuttavia la risposta è fortemente correlata all’intensità della perturbazione. Perturbazioni deboli come respirazione o variazioni di temperatura dal caldo al freddo producono piccoli danni e l’ordine originale viene ristabilito usando appropriati meccanismi di difesa. Da un punto di vista termodinamico il disordine creato dalla perturbazione viene a essere annullato dando origine a un processo esotermico verso l’ambiente con eliminazione di prodotti di scarto. Se questi danni non sono riparati velocemente, si possono verificare dei processi irreversibili e tutto il sistema cellulare cambia lentamente e in generale è accompagnato da una perdita della reattività biochimica delle cellule. Questi processi irreversibili sono la causa dell’invecchiamento.

Il sistema concertato di meccanismi di difesa diventa più efficiente quando la perturbazione cresce un po’di intensità, come per esempio si verifica quando il sistema cellulare viene a interagire con una piccola quantità di molecole di uno xenobiotico (ovvero una molecola estranea) . Come abbiamo detto in precedenza, da un punto di vista termodinamico il sistema reagisce in maniera tale da opporsi alla variazione indotta dalla perturbazione esterna, ma non si limita a questo. Poichè il suo software è programmato per mantenere se stesso al variare delle condizioni esterne, il sistema non si limita ad annullare la perturbazione, ma si prepara a una ulteriore interazione rafforzando i suoi meccanismi di difesa, che implicano anche la riparazione dei danni subiti. L’aumento di efficienza viene quasi sempre ottenuto stimolando l’intero insieme di cellule a favorire la produzione di ATP. L’ATP è una fonte di energia libera e, se l’eccesso di ATP non viene utilizzato per far fronte a una nuova perturbazione, il sistema cellulare lo utilizza per effettuare altri tipi di riparazione con un conseguente effetto benefico su tutto il sistema. Il processo stimolatorio è l’origine dell’ormesi che, sulla base delle considerazione esposte, può essere descritto come risposta adattativa indotta implicante una sovra-espressione dei geni designati alla riparazione dei danni e alla eliminazione dei prodotti di scarto. Il risultato è che in queste condizioni si ha allungamento della vita, come dimostrato di recente con il chiarimento del meccanismo dell’ormesi mitocondriale (stimolazione della citocromo-ossidasi).

Questo effetto benefico viene sopraffatto se la perturbazione è troppo grande. Nell’ambito di questo contributo per semplificare mi limiterò a osservare che questo avviene quando la quantità di molecole di xenobiotico è tale da inibire o limitare un processo biologico. In questo caso il livello dei danni al sistema genetico aumenta e il rischio di modificazioni irreversibili dell’intero sistema cellulare diventa grande. Il sistema prova a reagire attivando meccanismi alternativi a quelli limitati o inibiti dallo xenobiotico e, se la riparazione dei danni avviene rapidamente, è possibile ritornare allo stato stazionario originale con rilascio di entropia verso l’esterno. Ma se questo non si verifica, l’eccesso di entropia prodotto non viene esportato e rimane all’interno del sistema cellulare. Poichè un aumento di entropia significa sistema meno ordinato, in questo caso si ha l’alterazione dell’intero sistema con minore capacità di reattività e di produzione di entropia. Questo significa che la sua capacità di difesa è diminuita, così come la sua capacità di riparare danni. Il sistema si adatta a un nuovo stato stazionario, ma c’è da sottolineare che il sistema dei geni ha perso efficienza e la sua capacità di risposta è irreversibilmente diminuita. In questo caso la probabilità di apoptosi aumenta ed è normale osservare una senescenza prematura (nella letteratura anglosassone SIPS, Stress Induced Premature Senescence) Tutte queste considerazioni spiegano l’alta probabilità di effetti collaterali nell’adozione di terapie che sfruttano effetti di inibizione e che quindi devono necessariamente utilizzare un numero di molecole di farmaco relativamente elevato.

Per finire quando la quantità di xenobiotico diventa troppo grande, i danni indotti non possono essere più riparati, il sistema non riesce a raggiungere un nuovo stato stazionario e tende verso lo stato di equilibrio chimico del sistema, che implica la morte dell’organismo. In questo caso si ha la morte cellulare per necrosi.

Discussione e conclusioni

Le considerazioni sopra riportate sono la diretta conseguenza dello sviluppo scientifico nei campi della termodinamica, della biologia e della scienza dell’informazione che si è verificato nella seconda metà del Novecento. Esse hanno il grande merito di definire compiutamente l’organismo vivente e la sua evoluzione e di unificare in un solo concetto generale una molteplicità di fenomeni quali l’invecchiamento, l’ormesi, la plasticità biologica, l’effetto degli stress materiali e cognitivi, la SIPS e così via. L’allungamento della vita come conseguenza della restrizione calorica e gli effetti negativi da sindrome da disuso sia a livello cardiovascolare che a livello di sistema nervoso diventano lemmi di un teorema che la conoscenza umana aveva intuito da secoli, ma mai formulato con chiarezza. Il problema di fondo rimane la quantificazione dell’enunciato perché non è ancora possibile prevedere perché e come una modificazione cellulare indotta da interazioni dell’organismo con l’ambiente o, più semplicemente, da decadimento spontaneo delle molecole per vecchiaia possa dare origine alla fine del processo della vita. La risposta sta probabilmente nel fatto che a tutt’oggi non abbiamo capito ne’ il perché dell’esistenza della cellula, ne’ il perché di quella particolare struttura che osserviamo nei vari organismi viventi. Ricordo che questo secondo punto era già stato evidenziato da Kant, ma non mi sembra che sia stato considerato come avrebbe dovuto.

E’ovvio che queste considerazioni dovrebbero costituire il pilastro centrale al quale riferirsi nella terapeutica medica. Inconsapevolmente molti modelli terapeutici si riscoprono in tale quadro generale, anche se visti in un’ottica totalmente diversa. Lascio agli esperti di tali modelli il compito di formulare i distinguo e di evidenziare i punti di dissenso, di disaccordo e di divergenza rispetto ai loro truismi professionali. Mi limito a sottolineare come da tale quadro emerga il fatto che il paradigma della farmacologia della biomedicina sia intrinsecamente limitato, basandosi sulla somministrazione di dosi sub-letali di molecole in quantità tali da indurre spesso alterazioni irreversibili nel software di autoprotezione dell’organismo. Con questo non mi schiero con la posizione di pensiero che vuole che la biomedicina abbia portato a accrescere la sofferenza o a curare malattie che non ci sarebbero state senza un precedente intervento medico: condanno solo l’insufficienza del paradigma e la protervia dell’accademia di volerne giustificare razionalmente l’aggressività in nome di una pretesa di voler essere l’artefice di un modo di vivere migliore.

Quanto abbiamo detto suggerisce l’opportunità di un modello terapeutico meno aggressivo che implica una revisione dei fondamenti dell’arte del curare. Mi limito a osservare come l’accettazione a livello terapeutico dello stesso concetto di ormesi debba implicare una revisione totale della farmacologia. Secondo tale concetto l’eliminazione progressiva di molecole di farmaco, somministrato a concentrazioni ritenute benefiche, è prevista indurre effetti opposti a basse concentrazioni. Alla fine della seconda guerra mondiale ci si accorse che riducendo le dosi di penicillina le polmoniti si aggravavano, perché la penicillina a basse dosi stimolava la crescita dei batteri patogeni. Più recentemente in numerosi casi si è osservata la proliferazione di cellule cancerose indotte nel tempo dalla somministrazione di farmaci antitumorali.13 Sulla base di queste e altre osservazioni lo sviluppo dello studio dell’ormesi può portare a auspicare la ricerca di una nuova classe di farmaci con caratteristiche farmacocinetiche più appropriate e soprattutto permettere la formulazione di una farmacologia delle microdosi, che potrebbe rappresentare una rivoluzione concettuale di estrema importanza per l’evoluzione futura della medicina. Concludendo, la nuova visione della natura dell’organismo comporta una nuova visione della professione medica. Basta evidenziare come sfruttando la curva ormetica a forma di J della relazione dose-risposta, il medico possa giudicare se il momento diagnostico e l’osser- vazione clinica suggeriscano come più appropriata la prescrizione di una terapia inibitoria o di una stimolatoria. In questo senso, pur prescindendo da ogni argomentazione di prius posterior dettata da un principio di causalità logica, ritengo debba essere definito il modello di Medicina Integrata, che stiamo proponendo in queste pagine.

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