Scienza e Medicina Complementare

Men quarreling --- Image by © Alberto Ruggieri/Illustration Works/Corbis

di Andrea Dei, su “Omeopatia33” del 21 giugno 2007

Il grado di biodiversità nella razza umana è relativamente basso, se comparato con quello delle altre specie animali. Fa riflettere tuttavia il fatto che gli umani utilizzino circa settemila lingue diverse. Una delle ragioni principali dell’esistenza di questo fenomeno è attribuibile a un naturale meccanismo di autodifesa per definire nell’ambito delle relazioni una propria identità e per salvaguardare la propria indipendenza.

Questo si verifica anche a livello professionale, come per esempio nel caso dei rapporti fra gli esponenti della medicina tradizionale e quelli delle medicine complementari. Volutamente si parlano linguaggi diversi, volutamente si danno valutazioni diverse della dimensione e rilevanza di connessioni fra gli stessi fatti, volutamente si ignora il livello di provvisorietà e di soggettività di tali valutazioni. Questo meccanismo di autodifesa porta il medico a trascurare, ancora una volta volutamente, i limiti intrinseci delle proprie posizioni culturali.

Questa è la considerazione primaria che nasce dalla lettura dell’articolo di Giovanni Federspil “Medicina scientifica e medicina alternativa: il problema della demarcazione”, che mi è stato chiesto di commentare. L’autore, che purtroppo non ho la fortuna di conoscere personalmente, è indubbiamente una personalità di altissima rilevanza culturale nel mondo della medicina. Studioso di filosofia della scienza, da anni ritiene di poter tracciare una linea di demarcazione tra medicina accademica e medicina complementare invocando un criterio di scientificità ispirato dalle letture di Popper.

Questo filosofo formulò un criterio estremamente superficiale per definire la scientificità di una posizione culturale, criterio che suona “ogni teoria per essere definita scientifica deve essere falsificabile”. La posizione non è originale nella storia del pensiero umano visto che Platone nel “Teeteto” e nella “Repubblica” non solo l’aveva formulata, ma anche ridicolizzata. Così avevano fatto i sofisti, Montaigne e numerosi altri fino a Kuhn, Lakatos e Feyerabend nel recente passato. Mi spiace che Federspil continui a insistere su questo mini-Kant da salotto. Il punto chiave è che tale teoria, nella sua ingenuità, presuppone una natura essenziale della scienza, il che stante la sua eterogeneità è per certo ampiamente poco probabile. Se questo è vero per la scienza, figuriamoci per la medicina che, ancorché aspiri a basarsi sulla conoscenza scientifica, è parimenti ridicolo definire una scienza. Questo lo sanno tutti i medici, anche se ci si guarda bene da farlo sapere alla gente comune.

Le considerazioni di Federspil sono totalmente condivisibili qualora il pensiero medico delle medicine complementari venga supportato da principi fideistici, immutabili e autolimitanti. In questo caso i propugnatori di tali posizioni culturali, illogiche e incompatibili con il carattere delle capacità cognitive della natura umana, ricadono nello stesso errore di Popper credendo alla natura essenziale di un pensiero medico. Questo purtroppo avviene in alcune scuole di pensiero delle medicine complementari. Tuttavia la linea di demarcazione che Federspil intende tracciare fra la medicina accademica, disegnata per essere supportata da una sperimentazione basata su una primitiva conoscenza scientifica, e le medicine complementari, che di scientifico hanno solo una base operazionale, non ha un fondamento se non quello di un’autodifesa. Purtroppo l’autodifesa è in negativo nel suo arrocco, giacché non trovo nello scritto l’ovvia considerazione che la medicina che lui aspira a definire scientifica (cioè la medicina accademica) abbia fondamenti scricchiolanti, essendo ormai dimostrato che molti dei pilastri del paradigma presentano crepe irreversibili e sono basati su verità improbabili.

La considerazione di fondo è quindi che Federspil, come molti altri, vuole in realtà affermare con la presunzione di scientificità un principio rassicurante per l’utente e per il medico, introducendo il principio del dubbio (o addirittura del rigetto) per gli altri pensieri medici. Di fatto trasforma ancora una volta la scienza, per natura dubitativa nei confronti del paradigma adottato, in scientismo, che si basa su una comunicazione di un messaggio di certezza. Ora questo è patentemente contrario alla natura della professione medica. Ippocrate insegna che nell’interazione col paziente la gestione del dubbio è la prima regola da seguire per permettere una scelta equilibrata di suggerimento terapeutico. Il medico non può prescindere quindi dalla considerazione che possa essere suggerito l’uso di una cultura medica diversa dalla sua. A meno che non si voglia imporre una certezza arbitraria e una scelta a vantaggio di qualcun altro, ma non del malato.

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