L’illusione dell’oggettività in medicina

di Andera Dei, da HIMed Anno 4, numero 2, novembre 2013

La cultura occidentale nasce dalla disputa fra Eraclito e Parmenide sui principi che governano il mondo. Se avessero fatto almeno pari, il mondo sarebbe stato diverso e non sarei stato qui a discettare proposizioni, che i lettori sono ampiamente giustificati a non condividere, riguardo all’ oggettività della biomedicina e di tutti i metodi terapeutici che vengono correntemente utilizzati. Ma purtroppo ha vinto Parmenide e nell’affresco “Scuola di Atene” di Raffaello, che si trova in Vaticano nella Stanza delle Segnature, Eraclito se ne sta in basso, distaccato dagli altri, con lo sguardo opaco e il non sorriso rassegnato del perdente. La conseguenza di tutto questo è stata che gli uomini nel loro progresso hanno creduto nella semplicità della natura e per rendere la cosa più facile hanno assunto come postulato l’ esistenza di un concetto di invarianza nell’ analisi fenomenologica che permettesse la formulazione di leggi e teorie. Tutto il pensiero della rivoluzione scientifica è stato volto alla ricerca di regolarità nei fenomeni osservati. Questa regolarità ha l’indubbio vantaggio di permettere una formulazione logica dei risultati sperimentali e soprattutto di fregiarsi dell’ adozione di un metodo oggettivo. Il carattere fondamentale di tale metodo, infatti, è che gli stessi esperimenti devono dare sempre gli stessi risultati indipendentemente da chi li fa e questo è sostenuto supportare l’idea del risultato dell’ esperimento come base della teoria, che etimologicamente significa “visione di Dio”. L’oggettività significa che una entità esiste indipendentemente da un osservatore, col che intrinsecamente si viene a definire quello che nell’astratto costituisce la verità assoluta. Sottolineo che questo comportamento ritualizza l’ottimismo dell’uomo di scienza e che le proposizioni antecedenti implicano tre aspetti fondamentali. Il primo è il concetto di simmetria: la semplicità della natura può essere interpretata per mezzo di modelli geometrici semplici o di equazioni lineari che definiscono in genere le teorie, in quanto si tende a evidenziare il rapporto di causa-effetto. E’ il livello più basso del cosiddetto metodo scientifico, che si riassume matematicamente nell’ equazione y = kx. Il secondo è il concetto di oggettività, che si basa sulla presunzione di identificare la realtà fisica con la fenomenologia ovvero con quello che ci appare. Ancorchè si voglia ignorare la sentenza di Eraclito che la natura ama nascondersi, si deve pur sempre notare che l’ attributo “oggettivo” dovrebbe essere sinonimo di  “verificabile”  per non creare lecite confusioni. Ancora meglio Niels Bohr e la scuola di Copenaghen, il cui pensiero formulato quasi un secolo fa ha rivoluzionato la nostra civiltà, sostenevano che oggettivo significa semplicemente insegnabile, dal momento che nessuno meglio di loro ha mai avuto il senso di provvisorietà della cosiddetta asserzione scientifica. Il terzo e ultimo aspetto è che la presunta regolarità degli eventi naturali può spesso essere connessa con le convinzioni religiose, potendo gli eventi stessi essere presunti essere espressione di leggi divine. Ma se la componente mistica diventa dominante, come fu in Pitagora, Meister Eckhart, Keplero e gli alchimisti (fino allo stesso Newton)  ed è tutt’oggi nei credi religiosi orientali, è abbastanza ovvio che la molteplicità dei fenomeni naturali diventa insignificante per l’uomo di scienza essendo esso proiettato a superarli per avere la visione dell’ unità: il Tao, tanto per rimanere sul banale, anticipando di secoli una visione della fenomenologia che venne introdotta in occidente dalla meccanica quantistica nel secolo scorso, offre un esempio estremamente illuminante in questo senso. Tuttavia anche in assenza di misticismo, si possono introdurre principi di indeterminazione come fece Avicenna nel “Libro della guarigione”,che, prima grande bibbia che canonizzò l’ integrazione della medicina tradizionale (Ippocrate e Galeno) con una medicina alternativa, l’indiana Ayurveda, per sette  secoli costituì il testo ufficiale nell’ ambito dell’ arte della Medicina in tutto il mondo occidentale. I principi della filosofia e le leggi naturali – sentenziò Avicenna – sono eterni e immutabili e non possono essere contraddetti dall’esperienza, visto che il mondo è lungi dall’ essere perfetto.

            Il punto è che conoscenza e realtà son due cose diverse. La conoscenza per l’uomo e per ogni essere vivente non può essere che biologica: come tale  prevede l’esistenza di una autocoscienza da parte dell’ osservatore e qualsiasi fenomeno deve essere interpretato come la risultante dell’intreccio fra quello che deriva dall’esterno e la capacità individuale di ordinare i dati sensoriali che è caratteristica della specifica autocoscienza dell’osservatore. Le teorie nascono in quanto il fenomeno è interpretato attraverso la sovrapposizione di impulsi che derivano dall’ interazione individuale con l’ esterno e l’ elaborazione personale di tali impulsi causata dall’ autocoscienza che si è formata sulla base di esperienze precedenti. C’ è altresì da sottolineare che non tutti gli impulsi provenienti dall’esterno vengono considerati, ma vengono selezionati solo quelli che l’ osservatore sceglie seguendo i dettati della sua autocoscienza. In questo senso il risultato dell’ osservazione dipende dal punto di vista dell’ osservatore. La Scienza non esiste come verità immutabile, ma esiste solo perché questo processo di elaborazione è indefinito. Non esiste parimenti la conoscenza oggettiva, ma solo quella soggettiva come aveva già anticipato Platone, anche se la gran parte dei difensori della Evidence-based Medicine leggendo la metafora del mito della Caverna ne “La Repubblica”  creda esattamente l’opposto senza capire che tale mito altro non è che l’ apologia del pensiero e dell’ insegnamento di Socrate. Il carattere soggettivo della conoscenza umana è il carattere fondamentale del pensiero di Galileo, forse influenzato dal neoplatonismo della Firenze rinascimentale, e tutta la rivoluzione scientifica si basa su questo concetto. Tale carattere è altresì la base del concetto di conoscenza neurofenomenologica come formulata nel secolo scorso sia da Bateson in “Steps to an Ecological Mind” che da Maturana e Varela in “Autopoiesis and Cognition”. C’ è altresì da ricordare che questo concetto è sposato in pieno dalla teoria della complessità, anche se qui il carattere soggettivo assume un altro significato rispetto a Platone, Galileo e i neurofenomenologi. La conoscenza soggettiva, secondo questa teoria, altro non è che un mezzo utilizzato da un essere intelligente per arrivare a raggiungere i suoi fini personali. Questa considerazione è molto importante per definire il ruolo illusorio della cosiddetta oggettività in medicina ed è abbastanza sorprendente che essa sia stata trascurata.  Ma forse nemmeno tanto: vediamo perchè.

            La medicina moderna occidentale, altrimenti detta biomedicina, è la roccaforte dei materialisti militanti. I suoi successi hanno dello stupefacente e  nessuno può disconoscere il fatto che ha cambiato la vita di centinaia di milioni di persone. Unita al progressivo benessere, alla disponibilità di cibo e a una educazione appropriata dell’igiene della persona, essa  ha contribuito a far aumentare le speranze di vita delle recenti e presenti generazioni. Sottolineo che il contributo fondamentale è stato quello di mettere a punto numerosi farmaci salva-vita e di avere sviluppato tecniche chirurgiche che hanno del miracoloso se viste con gli occhi di un solo secolo fa. Tuttavia, se nessuno può mettere in dubbio l’efficacia di numerose procedure terapeutiche che nel giro di poche decine di anni sono state offerte e rese disponibili alla comunità, nessuno può essere così cieco dal non vedere i limiti della biomedicina. Essa segue un approccio meccanicistico che ha successo quando si considerano le proprietà meccaniche dell’organismo umano come la sostituzione di valvole cardiache, la stasatura delle arterie, la sostituzione di un’anca con una protesi e la rimozione di un processo infettivo con un antibiotico. Pertanto ha avuto ed ha successo fintantoché ha posto la propria attenzione sulle anomalie meccaniche e biochimiche degli organismi. Ma i ritmi di progresso stanno rallentando, la scoperta di nuove molecole in grado di essere adottate come nuovi farmaci è sempre più  risicata, molte malattie croniche continuano ad affliggere i disgraziati che ne soffrono, senza che la scienza medica, chiamiamola così, riesca a venirne a capo sia nella definizione della malattia che nella formulazione di una proposta terapeutica risolutoria. Il medico materialista militante alza le spalle di fronte a queste critiche dal momento che è orgoglioso dei successi raggiunti visto che l’hanno convinto ad esserlo, ma si adombra e si incupisce se gli si ricorda che esistono altri sistemi terapeutici quali quelli offerti dalle medicine “alternative”, che spesso vantano successi dove lui fallisce o fallirebbe. Questo semplicemente perché tali sistemi, non essendo basati sul suo metodo scientifico, che lui ritiene oggettivo, per definizione non possono funzionare. Chi gli dà una tale certezza?

            Lo sviluppo della civiltà occidentale degli ultimi quattro secoli può essere riassunta nella visione antropocentrica di Francis Bacon, che per primo teorizzò la liceità della violenza alla natura da parte dell’uomo per asservirla ai propri bisogni e desideri, nel Discorso sul Metodo di Descartes con tanto di separazione res cogitans e res extensa e per finire nella definizione di Kant della Scienza come verità assoluta in quanto formulata come risultante di un giudizio sintetico a priori.  Sfortunatamente per Kant nessuno gli aveva fatto notare che l’esistenza di un concetto di verità assoluta richiedeva sempre l’esistenza di un postulato e che secondo la sua logica un concetto a priori dello spazio e del tempo avrebbe richiesto una invarianza degli stessi rispetto alla natura della specie vivente considerata, come osservò Lorenz due secoli dopo. Pertanto la Scienza non può essere definita attraverso un concetto a priori,  e non può essere considerata una verità assoluta. Se in poche parole l’antropocentrismo di Bacon giustifica l’agire per fini di utilità e fu determinante per lo sviluppo della Rivoluzione Scientifica, rendendosi mallevadore dell’empirismo e del metodo scientifico (“conoscere è potenza” era il suo slogan), ben più pesante è stato il contributo di Descartes nell’ambito dello sviluppo della medicina. Il metodo proposto è quello dell’analisi riduzionista: la complessità della fenomenologia è solo apparente e può essere considerata come la risultante della sovrapposizione di molti eventi semplici. Non è difficile realizzare che questa metodologia sia facile da capire e sia pertanto gradita alle menti semplici. Da qui la visione dell’organismo come una macchina, dove la malattia è da ritenersi come dovuta solo al difettoso funzionamento di un qualche  meccanismo. Quando un meccanismo funziona male, si prova ad accomodarlo, lo si elimina e talvolta lo si sostituisce. E’ la base della biomedicina che, stante la separazione mente-materia, si occupa solo della materia. La mente non conta: l’autocoscienza, il proposito, lo scopo, la creatività, il libero arbitrio, i credo del medico e del paziente, attori alleati contro il male sulla scena dell’esistenza nella visione di Ippocrate, non devono essere considerati, visto che la psiche è un accessorio biologico. La proiezione di una tale concezione in fertili menti di medici in vena di fantasie ha creato una corrente di pensiero che da anni sostengo abbia distorto e snaturato il  senso stesso della medicina. Sto parlando dell’ Evidence-based Medicine.

            L’Evidence-based Medicine (medicina basata sulle evidenze) si basa su un concetto elementare, anche se c’è un baco all’origine da rimuovere che è quello costituito dal concetto di malattia e di salute. Ammesso che si accettino i concetti di oggettivismo e costruttivismo come riportato dalla Stanford Encyclopedia of Philosophy, il concetto chiave dell’Evidence-based Medicine è nella definizione di David Sackett, uno dei suoi più autorevoli teorici: “un approccio alla pratica clinica dove le decisioni cliniche risultano dall’integrazione tra l’esperienza del medico e l’utilizzo coscienzioso, esplicito e giudizioso delle migliori evidenze scientifiche disponibili, mediate dalle preferenze del paziente“.  Va detto che questa è la definizione rivista dai teorici di questa scuola di pensiero, dopo la pioggia di critiche ricevute da una parte della comunità medica all’enunciazione della prima formulazione che prevedeva l’eliminazione nella pratica clinica di qualsiasi forma di procedimento non sistematico da parte del medico. Tuttavia al di là delle definizioni edulcorate o meno, la filosofia di fondo che ha animato questo movimento non muta. Il trattamento terapeutico della malattia viene determinato dalle cosiddette evidenze riportate nella letteratura scientifica, che in teoria da un punto di vista oggettivo sono le sole in grado di dimostrarsi affidabili nel determinare la prassi da seguire. Questo perché si sostiene che la crescita esponenziale della ricerca in medicina ha reso sempre più difficile l’aggiornamento professionale e che l’applicazione delle nuove scoperte nella pratica terapeutica è estremamente lento.  Tale imbarazzante carenza comporta il persistere nella pratica medica dell’uso di trattamenti errati o per lo meno poco efficaci. A questo si somma il fatto che la biomedicina sta diventando troppo costosa (NdA: visto che la gente invecchia mediamente sempre di più) e che la domanda di prestazioni sanitarie sta crescendo, dal momento che la capacità di informazione degli utenti dei Servizi Sanitari Nazionali sta aumentando. Pertanto sia il medico, che non solo non si aggiorna con la letteratura medica, ma è anche non sempre professionalmente capace e si basa su una esperienza professionale spesso inadeguata, sia il paziente che, stante la sua ignoranza in materia, per definizione non è in grado di valutare la necessaria prassi terapeutica appropriata, non sono capaci di scegliere autonomamente in maniera corretta la strada  da percorrere per arrivare alla guarigione. Da notare che la guarigione in questa visione illuminata non riguarda la restaurazione dello stato di normalità del paziente nella sua interazione con l’ambiente che lo circonda, ma ancora una volta deve essere univocamente decisa attraverso la soddisfazione di certi parametri standard, che sono l’ unico criterio di oggettività.

Cosa vuol dire “oggettivo” nella medicina basata sull’evidenza? Per comprendere questo aspetto, bisogna premettere che esiste un tentativo ripetuto di una parte della società volto a trasformare ogni atto naturale implicante il giudizio empirico dell’individuo in un atto nel quale il giudizio deve obbedire a una normativa. Nel campo della medicina il giudizio empirico non deve riguardare la definizione di uno stato fisiologico seguendo un canone e una sensibilità personale, ma è sicuramente preferibile, anche se non viene detto, definirlo secondo una normativa. Governare la vita del cittadino attraverso standard sembra essere la direttiva istituzionale massimamente gradita a chi si occupa in linea di principio del benessere sociale o a chi si adopra per trarre vantaggio personale dal raggiungimento di tale benessere. Torneremo più tardi su questo concetto.

Per quel che riguarda la medicina basata sull’evidenza, come c’ era da aspettarsi, i filosofi di regime si sono sperticati ad arrampicarsi sugli specchi per dimostrarne e giustificarne l’oggettività, definendo oggettivo solo quello che può essere scoperto e misurato da certi metodi di indagine altamente specifici. Pertanto tutti gli aspetti dell’esperienza non rivelabili e misurabili con questi metodi sono da definirsi soggettivi nel senso che, essendo non reali, non possono essere considerati nell’ambito di una indagine razionale. Questo di fatto svaluta  tutti gli altri aspetti, anche se sono frutto di un potenziale buon ragionamento o di una dimostrata capacità professionale.  C’ è soprattutto da sottolineare che ogni diagnosi può essere formulabile sulla base di sintomi specifici e che pertanto ogni malattia deve essere categorizzabile sulla base di sintomi facilmente osservabili e quantificabili. Tutti gli altri sintomi, che il paziente può descrivere, ma che non possono essere osservati o quantificati, sono da ritenersi soggettivi e non sono da considerare. Anche se per il paziente tali sintomi sembrano costituire l’aspetto più importante della malattia e lui si dilunghi a descriverne l’impatto sulla sua esistenza normale, la medicina non li deve considerare e si deve basare solo sui sintomi oggettivi. E se la medicina si deve basare sulla scienza, una persona è solo un corpo che scientificamente è solo un esemplare di un corpo umano.

Apro una parentesi.  Ci sono due aspetti per me insopportabili nel movimento culturale della medicina basata sull’evidenze.  Il primo è quello di voler trasformare coloro che professano uno dei  mestieri più belli del mondo, visto che prevede la rimozione della sofferenza nei propri simili, in membri di una Wermacht disciplinata, nel migliore dei casi, o in  Ku-Klux-Klan, nel peggiore, sventolanti la bandiera di un preteso neopositivismo. Tali eserciti hanno il comune scopo di dare la caccia alle streghe del postmodernismo,  dal momento che così per loro si debbono definire i medici che considerano essenziale una relazione centrata sul rapporto medico-paziente o. peggio, che, come i medici esperti nelle CAM, adottano prassi terapeutiche non dimostrabili secondo i canoni della cosiddetta scienza. L’altro, anche nella versione sfacciatamente edulcorata, che caratterizza gli aspetti recenti del movimento culturale, è quello di autoattribuirsi una missione didattica nei confronti della classe medica, che le permetta di colmare le proprie lacune sugli sviluppi più recenti della letteratura medica. Aspetto indubbiamente lodevole, purchè non si utilizzi l’hitleriano “Mein Kampf” come manuale di supporto e sussidiario a cotale missione didattica. Tuttavia l’impostazione non può essere quella di auspicare la classe medica come un insieme disciplinato e militarmente inquadrato, nel quale la personalità del singolo si distingua dal coacervo della truppa per la capacità di lucidarsi meglio le fibbie e le scarpe per far riflettere fulgida la luce della medicina basata sulle evidenze. C’è infine un aspetto più importante che riguarda il metodo sperimentale, che tratteremo in seguito.

Come era ragionevole aspettarsi, l’inadeguatezza di tale modello è sempre stata sottolineata dai cultori delle medicine complementari, anche se non sempre, comprese le pagine di questa rivista, con la dovuta proprietà. In particolare la mia critica si rivolge a tutti coloro che hanno trattato con  pigra sufficienza un tale tentativo di coercizione culturale, senza sforzarsi di arrivare a una consapevolezza dei vincoli e delle pastoie che l’affermazione di tale movimento auspicava e avrebbe comportato. Per di più raramente si è messo in evidenza come gli stessi argomenti venissero utilizzati da molti anni da alcuni illuminati rappresentanti del mondo della biomedicina che, al pari degli odierni sostenitori della Medicina Integrata, auspicavano una rivoluzione del paradigma culturale della medicina moderna a partire dalle fondamenta.  Fra questi, come ho più volte scritto, mi piace ricordare quello che venne indicato come il maestro dei maestri, Alvan Feinstein, figura carismatica della seconda metà del secolo scorso nonchè uno dei padri riconosciuti dell’epidemiologia clinica. Ricordo la sua visione premonitrice che lo portò a formulare il concetto di comorbilità o comorbidità o anche comorbosità, stante l’instabilità terminologica del vocabolario medico, (“esistenza o contingenza di qualsiasi evento patologico durante il decorso clinico di una determinata malattia”) che con l’invecchiamento della popolazione implica per la cura di chi è colpito da malattie croniche uno degli eventi che maggiormente contribuiscono a far lievitare la spesa sanitaria. Il suo insegnamento si compendia nell’ espressione “Evidenza e fine della medicina” .

            Il pensiero di Feinstein, come riportato da una numerosa serie di articoli fino al classico “Clinical Judgement” apparso nel 1967, si fonda su una critica pesante alla medicina accademica colpevole di non aver realizzato che solo la persona può osservare, valutare e giudicare il proprio stato di salute. La medicina quindi deve essere basata sulla persona e deve partire dal presupposto che i pazienti devono essere protagonisti al pari del medico nel percorso di guarigione. Riprendendo quanto ho scritto in passato, egli sostenne che la capacità professionale e il buon senso pratico del medico dovessero essere integrati con il ragionamento clinico, che a sua volta non poteva costituire di per sè il mezzo per raggiungere la guarigione. Il medico insieme al paziente doveva valutare e stabilire in che cosa dovesse consistere lo  stato di guarigione e lo stato di salute. Questo punto di vista era assolutamente controcorrente in un periodo nel quale i diritti e l’autonomia del malato non erano stati riconosciuti, dal momento che la bioetica cominciò ad affermarsi diversi anni più tardi. Negli anni novanta Feinstein riconobbe che molto era stato fatto in questo campo, ma che sposare gli ideali della bioetica non era abbastanza.  Bisognava cambiare tutta la medicina, sia a livello metodologico, sia a livello della pratica medica, rifuggendo da ogni dogma o schema precostituito. Con questo riaffermava la visione scientifica aristotelica, secondo la quale il metodo viene ad essere definito volta per volta dal sistema considerato. Non è quindi un caso che prima di morire fosse uno dei più feroci critici della medicina basata sulle evidenze sostenendo che “lo scopo lodevole di prendere decisioni cliniche supportate scientificamente fosse fortemente danneggiato e quasi vanificato dalla ricerca della migliore evidenza disponibile.” Questo modo di procedere portava infatti alla legittimazione degli abusi peggiori con la scrittura di linee guida inadeguate, che inducevano una fede cieca in dogmi che non avevano ragione di essere adottati.  Non a caso nei suoi confronti scattò la macchina del fango, usando una espressione purtroppo trista delle recenti cronache italiane, con il chiaro scopo di demolirne la cristallinità culturale attraverso la voluta misinterpretazione di una sua asserzione riguardante gli effetti del fumo.

            Non sono un medico, però se devo parlare di scienza so bene cosa significa esperimento scientifico e so bene cosa significa oggettività. Qualsiasi esperimento scientifico prevede un sistema da osservare e un osservatore: le due entità si dicono intrecciate (entangled) e non è possibile disaggregare le due entità. In pratica intreccio significa che non è possibile conoscere le proprietà delle due unità separate, ma solo quelle del loro insieme. Il problema in filosofia della scienza va sotto il nome  del problema della misura in quanto il risultato dell’ esperimento è sempre determinato dal punto di vista dell’osservatore. Gli allievi dei fondatori dei Circoli di Vienna e di Berlino, quando si trasferirono nei paesi anglosassoni a predicare la ricerca dell’oggettività del pensiero filosofico, potevano stare un po’ più attenti a quella che era stata la causa di tale indirizzo conoscitivo. Era stata appunto la formulazione della meccanica quantistica, che aveva introdotto il concetto di entanglement, anche se poi come abbiamo detto in precedenza era una versione evoluzionistica della concezione di Platone. La conoscenza è un fenomeno biologico e in linea di principio dipende costitutivamente dall’osservatore in funzione del grado di distinzioni che è capace di fare e pertanto dipende dalla natura, dalla storia e dalle esperienze precedenti dell’ osservatore, come sottolinea Maturana in “The biological foundations of self-consciousness”. Pertanto nell’ambito della ricerca scientifica l’ oggettività, a meno che con essa non si voglia intendere tutto quello che può essere insegnato, è una illusione e se la medicina vuol fregiarsi dell’attributo di disciplina scientifica, deve parimenti accettare il carattere illusorio di quello che viene ritenuto oggettivo, che ripeto è diverso da verificabile. L’asserzione cosiddetta scientifica di per sè non ha bisogno di oggettività, in quanto non spiega una realtà indipendente dall’osservatore dal momento che il carattere intrinseco dell’umano è tale da, come abbiamo già detto, non poter distinguere fra percezione, illusione  e allucinazione a meno dell’introduzione di un postulato. La scienza è figlia della comunicazione e va concepita solo come l’insieme di asserzioni  consensuali nell’ambito di una comunità di osservatori che presentano le stesse domande alla natura. Ma la medicina è molto di più: oltre alle affermazioni consensuali, la medicina non può prescindere dall’intreccio medico-paziente e pretendere che questo possa avvenire non è solo riaffermare quel carattere di umanità che deve caratterizzare l’atto medico(e qui ricordo la differenza essenziale fra realtà e atto), ma il negarlo è estremamente grave da un punto di vista etico perché pesantemente condizionante la possibilità di guarigione del paziente stesso. La medicina non è questa: è l’interazione fra medico e paziente, ciascuno con la sua autocoscienza e ciascuno con i suoi domini di esistenza in funzione di ciò che ognuno dei due è in grado di distinguere. Ecco che a questo punto diventano importanti le credenze, le convinzioni, le aspettative future, la fede religiosa, ovvero tutto quello che si compendia in tutte le parole che derivano da psiche, come si vede chiaramente dall’ esistenza della risposta placebo, che la biomedicina disprezza salvo tirarla in ballo quando le fa comodo. Pertanto non ci si può ridurre alla ricerca limitata a un certo numero di relazioni causali trascurando in poche parole la continuità della vita, che collega a ritroso l’evento dello stato di malessere con i fenomeni di adattamento di un organismo vivente a partire dal suo concepimento. Il solo assistere alla derisione dell’effetto placebo è del potere della speranza in esso implicito è umanamente mortificante. In un soggetto in cui sono operative oltre a relazioni causali che influenzano il processo chimico-fisico della vita, i processi psichici che parimenti la influenzano, non è forse naturale che essi debbano essere considerati come autocorrelantisi o più semplicemente non vadano essi concepiti come i costituenti di un’unica unità, che è appunto il paziente? La medicina per me può avere un futuro solo nel senso che, come abbiamo visto precedentemente, auspicò Alvan Feinstein e il successo delle Medicine Complementari supporta questa mia asserzione.  E allora perché si insiste a educare gli studenti di medicina, sventolando la bandiera di una oggettività che non esiste? E perchè si invitano i medici a formulare diagnosi, sostenendo che essi possano farlo correttamente sulla base solo di quei parametri che è stato loro spiegato essere ritenuti oggettivi in quanto basati su incontrovertibili metodi scientifici?

            Il motivo è semplice. Fondare una società sulla scientificità è una caratteristica della civiltà occidentale e, come ha sostenuto per tanti anni Bertrand Russell, essa permette di postulare l’ esistenza di una realtà superiore alle illusioni e alle credenze che impastoiano la società umana, anche perché i comuni cittadini non possono verificare quanto asseriscono gli esperti, veri o presunti che siano.  La scienza nella credenza popolare è l’unica realtà che permette la comprensione del mondo nel quale viviamo e nell’ iperuranio popolare è indiscutibile, immutabile e quindi per definizione oggettiva. Come ho sempre sostenuto, i medici nella società rappresentano una classe sacerdotale, visto che sono demandati a risolvere le pene e le paure della pletora inginocchiata dei loro simili  e a additare loro la strada da percorrere per un futuro senza sofferenze. Questo potere non deve essere messo in dubbio e possibilmente deve essere implicito nella morale collettiva. Perché questo si mantenga nel mondo moderno è necessario proteggere questa attività sacerdotale sotto l’ aureola referenziale della scientificità.  Il punto debole di tutto questo è  la constatazione che la scienza è un’ attività umana, essa cambia con la storia dell’ uomo e non esiste nessun iperuranio. La presunzione che la medicina sia oggettiva è fuorviante sia per quello che riguarda la società che per quello che riguarda l’ opinione che i medici hanno di se stessi. Tale presunzione favorisce l’illusione e l’autoillusione e quello che è peggio denatura l’essenza dell’atto medico.

La medicina si è sviluppata in maniera prodigiosa nel secolo passato ma, come abbiamo già detto, questo ritmo di sviluppo sta rallentando, malgrado l’enorme massa di denaro che viene devoluta alla ricerca medica. I nuovi principi attivi in grado di essere utilizzati  farmacologicamente sono spesso molecole modificate di principi attivi preesistenti, mentre le molecole veramente nuove che si scoprono ogni anno spesso si contano sulle dita di una mano o al più di due. Le grandi scoperte della biologia hanno permesso di conoscere il perché di tanti meccanismi biologici a livello molecolare, ma il ritorno della conoscenza del perché, a livello applicativo, è stato estremamente limitato. Basti pensare all’illusione che ha generato la concezione della vita basata sul gene e gli investimenti di miliardi e miliardi di dollari che ne sono seguiti. Ma poiché l’ organismo non è il solo risultato di un software intrinseco in un DNA, ma anche della storia delle interazioni con l’ esterno dell’ organismo stesso, posso tranquillamente predire che, come già si sta verificando, questa strada non porterà da nessuna parte. Quando ai farmaci naturali e alle loro varianti sintetiche si è cercato di aggiungere nuovi farmaci progettati in maniera razionale sulle conoscenze della biologia molecolare, genomi inclusi, i risultati sono stati molto deludenti. La ricerca è carissima e le case farmaceutiche fanno di tutto per risultare credibili sul mercato promuovendo farmaci il cui costo sempre più alto viene giustificato da un’efficacia basata sulla ricerca scientifica. Se tale efficacia spesso non merita giustificazione, pazienza. Si possono sempre pagare scienziati famosi per scrivere o semplicemente figurare come autori di studi attestanti le proprietà meravigliose del farmaco, (caso del Prempro, leggi terapia ormonale sostitutiva, che è stato poi scoperto aver causato il cancro al seno di decine di migliaia di donne), si possono nascondere studi che dimostrano l’insorgenza di effetti collaterali serissimi, e soprattutto si possono influenzare le istituzioni, l’educazione universitaria, i Servizi Sanitari Nazionali, le commissioni per i finanziamenti pubblici per la ricerca e le agenzie che dovrebbero vigilare e regolare il commercio dei farmaci. Tutto questo richiede una giustificazione e questa può essere trovata con la spesso illusoria etichetta di scientificità, che per definizione viene associata alloggettività. Poiché il grosso degli interessi gravita sulla biomedicina, questo ha una enorme conseguenza sul piano delle scelte politiche e economiche. Di fatto si cerca di rimuovere ogni tentativo di evoluzione della medicina verso la sperimentazione di nuove terapie quali quelle implicanti l’integrazione con medicine complementari e nel contempo si cerca di promuovere una medicina  che pretende di ordinare secondo un rigoroso metodo scientifico una realtà complessa come lo stato di salute dei cittadini. Quest’ultima posizione  è apparentemente difficilmente criticabile, in quanto la si può far passare come una visione illuminata capace di riscuotere il consenso dei più. Resta il fatto che come scriveva il 19 ottobre 2013 l’autorevole The Economist, questo modo di gestire la salute pubblica ha portato in circolazione prodotti supportati da studi la cui riproducibilità nella gran parte dei casi è fallita. Il giornale riporta che solo 6 su 53 studi pubblicati su un farmaco anticancro si sono dimostrati validi, che la Bayer nel testare i lavori riguardanti numerosi principi attivi ha serie difficoltà a  supportarne l’efficacia e che la gran parte dei lavori pubblicati dalle società di biotecnologie sono semplicemente irripetibili a livello di verifica. Risparmio il lettore da un ulteriore lungo elenco di nefandezze, con buona pace dell’ oggettività propugnata dal movimento della medicina basata sulle evidenze e dei data-base per supportare le carenze dell’ informazione e dell’aggiornamento nel campo della terapeutica medica. Il titolo dell’editoriale dell’ Economist “How Science goes wrong” mi sembra particolarmente illuminante nel suo implicito ottimismo venato di ribrezzo.

Ringraziamento. Un caloroso e paternamente compiaciuto grazie a mio figlio Lupo, studente non illuso del corso di laurea in medicina, per la sagacia delle sue osservazioni, per il costante incoraggiamento a mostrargli un panorama implementato rispetto a quello recepito sui banchi dell’accademia e per i suggerimenti glossatori nella revisione del testo originale di questo manoscritto.

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