La Medicina Integrata e l’eredità di Feinstein

di Andrea Dei, su “Omeopatia33” del 24 novembre 2011

Lo scopo dell’evento (il Manifesto della Medicina Integrata, ndr) è quello di stimolare tutte le categorie degli operatori della salute, in primis quelli che sono soliti utilizzare terapie cosiddette convenzionali, a promuovere la definizione di una cultura sistemica del soggetto tale da permettere la sua istituzionalizzazione nell’ambito del SSN. I presupposti per l’affermazione di una tale cultura sono stati enfatizzati per l’occasione in una serie di monografie di autori diversi con motivazioni diverse. Tuttavia è denominatore comune a tutti questi contributi l’auspicio di un modello terapeutico che preveda la rivalutazione della centralità della persona e il superamento di quella suddivisione cartesiana res cogitans – res extensa sulla quale si è sviluppata la medicina dei secoli passati. L’inadeguatezza di tale modello è sempre stata sottolineata dai cultori delle medicine complementari, ma raramente si è sottolineato come gli stessi argomenti venissero utilizzati da molti anni da alcuni illuminati rappresentanti del mondo della biomedicina che, al pari degli odierni sostenitori della Medicina Integrata, auspicavano una rivoluzione del paradigma culturale della medicina moderna a partire dalle fondamenta. Fra questi spicca quello che venne indicato come il maestro dei maestri, Alvan Feinstein, figura carismatica della seconda metà del secolo scorso, nonchè uno dei padri riconosciuti dell’epidemiologia clinica. Il suo insegnamento si compendia nell’espressione “Evidenza e fine della medicina”.

Il pensiero di Feistein, come riportato da una numerosa serie di articoli fino al classico “Clinical Judgement” apparso nel 1967, si fonda su una critica pesante alla medicina accademica, colpevole di non aver realizzato che solo la persona può osservare, valutare e giudicare il proprio stato di salute. La medicina quindi deve essere basata sulla persona e deve partire dal presupposto che i pazienti devono essere protagonisti al pari del medico nel percorso di guarigione. Egli sostenne che la capacità professionale e il buon senso pratico del medico dovessero essere integrati con il ragionamento clinico che, a sua volta, non poteva costituire di per sé il mezzo per raggiungere la guarigione. Il medico insieme al paziente doveva valutare e stabilire in che cosa dovesse consistere lo stato di guarigione e lo stato di salute. Questo punto di vista era assolutamente controcorrente in un periodo nel quale i diritti e l’autonomia del malato non erano stati riconosciuti, dal momento che la bioetica cominciò ad affermarsi diversi anni più tardi.

Negli anni novanta Feinstein riconobbe che molto era stato fatto in questo campo, ma che sposare gli ideali della bioetica non era abbastanza. Bisognava cambiare tutta la medicina, sia a livello metodologico sia a livello della pratica medica, rifuggendo da ogni dogma o schema precostituito. Con questo riaffermava la visione scientifica aristotelica, secondo la quale il metodo viene ad essere definito volta per volta dal sistema considerato. Non è quindi un caso che prima di morire fosse uno dei più feroci critici della medicina basata sulle evidenze (EBM), sostenendo che “lo scopo lodevole di prendere decisioni cliniche supportate scientificamente fosse fortemente danneggiata e quasi vanificata dalla ricerca della migliore evidenza disponibile.” Questo modo di procedere portava infatti all’adozione degli abusi peggiori con la scrittura di linee guida inadeguate, che inducevano una fede cieca in dogmi che non avevano ragione di essere formulati. Non ho dubbi che la visione cristallina di questo grande esponente della medicina moderna potrebbe costituire un prestigioso prolegomeno all’evento che si terrà nei prossimi giorni a Firenze.

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