Bioetica, la bancarotta di un sogno

di Andrea Dei, su “Omeopatia33” del 17 marzo 2011

Non esaltanti motivi di età non aiutano certo a smussare la mia natura presuntuosa, ideosa e assertiva. Con queste premesse non ho dubbi nell’’affermare di poter ringraziare la sorte di aver fatto parte dell’’ultima generazione che ha avuto l’’opportunità di credere di poter cambiare il mondo con la forza delle idee, dal momento che la massa di informazioni e di messaggi mediatici che oggi stiamo subendo non consentono spesso di continuare a subire il fascino di un’emozione. Così la mia generazione ha avuto la possibilità di vivere la nascita di una rivoluzione quando nel 1970 Van Rensselaer Potter, biochimico e oncologo, fondò la bioetica come scienza risultante dalla fusione di biologia e filosofia, che diventò in poco tempo una branca dell’etica applicata quando la forza dei quattrini della Fondazione Kennedy permise ai cattolici della Georgetown University di metterci le mani. Questo portò alla costituzione di una scienza interdisciplinare dove medici, preti, teologi, avvocati, economisti, filosofi e sociologi avevano diritto di parola.

Oggi non si è più soliti sottolineare il punto chiave di cotale rivoluzione. La biomedicina (cioè la medicina accademica occidentale) si è sviluppata mirando sostanzialmente alla cura della malattia e dimenticando talvolta la natura dell’’essere umano, come ricorda Eric J. Cassell in “The Sorcerer’s Broom: Medicine’s Rampant Technology” (23 Hastings Center Report 32: 36, 1993):

We value the preservation of structure over the preservation of function. We value the body over the person, we value survival over maximum function, and length of life over quality of life”.

Thomas Kuhn avrebbe detto che lo sviluppo della tecnologia comportava uno spostamento del paradigma della figura medica da “consigliere di guarigione” a “tecnologo della guarigione”, (e non scienziato come l’AMA tronfiamente è usa pretendere), ma non so se avrebbe aggiunto che certamente la tecnologia di per sè non è di ostacolo all’ umanità in medicina, ma di sicuro permette di evitarla. La possibilità quindi di combattere l’egemonia della pratica medica in uso e dei suoi eccessi di potere costituì negli anni settanta il principale motivo di attrazione della nuova disciplina.

Ma se si va a vedere il nocciolo del problema, la rivoluzione non fu tanto nella sbandierata contrapposizione sociale fra medicina e morale, come vorrebbero i bioetici, quanto piuttosto nel ridisegnare la concezione di cosa significava essere un uomo con la sua autonoma capacità di scelta e di accettazione dei rischi in un contesto sociale (si pensi al problema del consenso informato, con tutti i suoi limiti intrinseci). Brutta storia per chi voleva imporre qualcosa. Ma come più tardi avvenne per l’EBM, l’evoluzione delle idee del Circolo di Vienna tradotta dall’impostazione tradizionalmente empirica della cultura anglo-americana portò a un pragmatismo implicante l’assenza di ideologia e di idealismo, e cioè di un’etica libera dall’etica. Questo ha portato alla bancarotta della bioetica o almeno al suo ridimensionamento. A questo ha contributo indubbiamente il pesante finanziamento portato alla bioetica dalle case farmaceutiche (R. Cooter, Lancet, 2004), interessate alla costituzione di una morale comune facilmente influenzabile (come nell’EBM) e alla collusione della disciplina con la clinica della medicina occidentale.

Il lavoro di Kevin Smith, così come quelli di Garattini (EJIM, 21, 245, 2010), Ernst (AJM, 122, 973, 2009), Sehon and Stanley, (JECP, 16, 276, 2010) e altri, vanno letti in questa chiave: la difesa in negativo della medicina accademica attaccandosi a quell’etica biomedica che avrebbero voluto che fosse socialmente adottata, e che viceversa una parte rilevante di pazienti sta abbandonando con soddisfazione, potendo culturalmente e finanziariamente permetterselo. Nel far questo rimpiangono la vecchia morale popolare della passata generazione che era avvezza a credere all’infallibilità della biomedicina ed accettare tollerante e prona le condizioni che essa le imponeva, compreso l’essere talvolta curata male. E come si poteva discutere? C’ era sempre l’uso e il misuso della parola di scienza sparsi ad arte. Ma i maledetti (ai loro occhi) pazienti di oggi, snob e sofisticati, si rivolgono sempre più alle medicine complementari specie per risolvere quelle malattie croniche che la biomedicina non sa curare. Al che non resta loro che cercar di convincerli che a curarsi con l’ omeopatia, l’agopuntura o la fitoterapia si va di certo all’inferno, e nel contempo continuare a tacere sui loro stessi peccati. Perché se inserite nei data base come argomento di ricerca le parole “silence in medicine” o cose del genere, non trovate quasi niente, visto il muro di omertà che circonda i defunti e le malefatte in genere causati spesso anche inconsapevolmente dalla biomedicina. Il che mi ha convinto che scriverne sia bioeticamente scorretto.

Be the first to comment

Leave a Reply