I quasi-quanti della ‘quasi’ omeopatia

di Andrea Dei, su “Omeopatia33” del 1° luglio 2010

E’ noto che per entrare allo Studio 54 a Manhattan bisogna essere interessanti. Questo però non vuol dire che basti travestirsi da mucca svizzera con il campanaccio al collo o da pasticcino, cioè tutto nudo con un candito nell’ombelico. Sarebbe troppo facile visto che gli uomini non hanno grosse difficoltà nell’esprimersi attraverso il cattivo gusto o il patetico. Ma se i buttafuori dello Studio suddetto per ipotesi avessero un minimo di cultura scientifica, non ho dubbi che molti autori di ipotesi sul meccanismo di funzionamento dei medicinali omeopatici verrebbero fatti passare con tutti gli onori.

Se ne sono sentite di tutti i colori: memoria dell’acqua, frattalizzazione, campi magnetici imbottigliati, accoppiamento fra stati virtuali, soluzioni che si evolvono, molecole che funzionano da trasmettitori e giù a seguire. Tutto questo sempre dimenticando che ognuna di queste ipotesi portava inderogabilmente all’espressione di una nuova fisica o di una nuova chimica. La storia della scienza è ricca di amenità: i raggi N, la fusione fredda (almeno come l’avevano descritta), il mitico pneumotorace artificiale di Forlanini, l’acqua polimera che si annidava nel fondo degli oceani e che era causa dell’invecchiamento. Le teorie fino a oggi espresse sull’omeopatia non si discostano dalla vacuità picaresca, ancorché purtroppo ricevano da parte di alcuni una immeritata attenzione.

Il lavoro di Molsky recensito sul numero scorso di “Omeopatia33” da Tiziana Di Giampietro, alla quale porgo le mie più vive congratulazioni per la difficoltà del compito, offre una spiegazione dell’omeopatia sulla base della teoria dei quanti deboli di Atmanspacher. Questa teoria è stata sviluppata per razionalizzare matematicamente la psicoanalisi, la psicologia e scienze correlate.

Visto che un grande come Wolfgang Pauli si era già occupato ampiamente del soggetto e che, essendo uno dei padri della teoria quantistica, si era guardato bene dall’invocarla al proposito, presumo che Atmanspacher ne potesse fare tranquillamente a meno. Infatti la teoria prevede la rimozione dei requisiti di quantizzazione. Ma Atmanspacher è molto chiaro nella sua formulazione: la teoria non è altro che l’estensione dei metodi della meccanica quantistica a un mondo in cui le osservabili di un certo sistema preso nel suo intero non sono compatibili con le osservabili delle sue singole parti. Basta pensare alla trasferibilità e alla controtrasferibilità di Freud per esempio.

Molski nell’articolo sostiene che con questa teoria si possa spiegare anche il contenuto informatico di un sistema fisico, quale è quello che si sostiene trasferire a un medicinale omeopatico. Per rendere tutti più felici ci infila anche la cinetica Gompertziana, ma perchè lo faccia sfugge ai più. Ora è abbastanza logico che un sistema fisico, a differenza di uno psichico, non ha bisogno della teoria dei quanti deboli, visto che la teoria dei quanti basta e avanza per definirlo. E poichè la teoria dei quanti prevede anche la decoerenza, ecco che l’informazione non può sopravvivere che per un tempo infinitesimale, il che vuol dire che la memoria dell’acqua non esiste. Ne concludo che la teoria dei quasi-quanti in omeopatia è perfetta nel definire una “quasi-terapia” di una “quasi-medicina”, ma non va molto più in là dell’illazione onirica. Ma è anche vero che l’autore polacco deve tener conto dello sviluppo dell’omeopatia in Polonia e chissà che una tale teoria inconsistente un domani possa anche tornare utile, visto l’amore di alcuni per il patetico.

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