di Andrea Dei, su “HIMed” 19, giugno 2019
“È probabile che non siano mai esistiti animali con un ruolo così importante nella storia del mondo”. Così scriveva Charles Darwin nel 1881 nel suo libro sui lombrichi e così pensavo io lo scorso 15 marzo mentre introducevo il seminario “Advances in Homeopathy: a new scientific and social perspective” (VIII Congresso Siomi) con la speranza di venir scambiato per un lombrico.
Già, perché una platea apparentemente interessata stava sentendo un chimico, che nella sua vita aveva fatto esattamente l’opposto di quello che viene predicato nel “Manuale per l’aspirante omeopata strettamente osservante”, e si preparava a seguire con passione le conferenze di tre non medici, la cui attività era stata da me ritenuta di rilevante importanza nell’ambito dell’omeopatia. Così importante che i due omeopati che avevo invitato, si erano pregiati di rifiutare sdegnosamente di contribuire adducendo o non adducendo scuse pretestuose, dopo avere accettato di partecipare con entusiasmo, ovviamente. Ma c’è da scusarli: forse avevano annusato il rifiuto del demiurgo che, nella loro immaginazione biondo e bello come Sigfrido, si era proposto per la risoluzione della sofferenza che la natura ha destinato a caratterizzare talvolta la condizione umana. Tuttavia devo dire che la numerosa platea alla fine della serata non era disperata per l’assenza degli sdegnati e non soffriva particolarmente per gli aggiornamenti radicali che molti avevano dovuto introdurre nella loro catechesi. Anzi, la gran parte ne gioiva quasi in preda a un’euforia glicemica. Perchè il seminario aveva rimosso l’errore di Hahnemann che, poveraccio, s’era ritrovato a giocare a testa o croce fra una scelta materialistica e una dinamicista senza uno straccio di un supporto e aveva avuto la sfortuna di fare la scelta sbagliata optando per la dinamicista.
Va ricordato che all’epoca il gigante della scienza Michael Faraday aveva teorizzato un qualcosa di misterioso come il concetto di campo che non aveva visto nessuno e, ripensandoci, molti di noi, me compreso, avevano sottovalutato la necessità di una tale scelta insensata da un punto di vista fisico e l’avevano inserita fra i pleonasmi senza pensare al significato chimico. A disdoro di Hahnemann invece non era tanto il fatto di aver fatto una scelta sbagliata ipotizzando un trasferimento di energia nella succussione, quanto piuttosto quello di averla teorizzata strogolandoci sopra e insolentendo i seguaci che si provavano a non prenderla come oro colato. Ritornando al seminario di Firenze invece la cosa più importante era che il seminario aveva avuto, oltre al successo, anche un insuccesso, che stava nel fatto che nessuno dei presenti avesse manifestato il desiderio di tramutarsi in un lombrico. Poiché tale defezione sta perdurando mentre sto scrivendo questa nota, ritengo che il fatto abbia costituito e costituisca tuttora un grosso limite della prospettiva di modificare l’orizzonte degli eventi dei soci Siomi e dei loro colleghi presenti, con l’aggravante di essere frutto di una scelta proterva. Perché risolto il problema hahnemanniano della succussione in favore della scelta materialistica, a nessuno è venuto in mente quello che un fratacchione di Brno aveva scoperto mentre Darwin studiava i lombrichi, suonando loro anche il pianoforte. Sto parlando di Gregor Mendel che, da buon abate, essendo timido anche con le due o tre fidanzate che lo praticavano, s’era messo a studiare meteorologia, visto che i suoi accurati studi sui piselli non interessavano un granchè dal momento che bisognava anche capirli e anche ai dotti di allora la cosa faceva fatica.
Eppure nel seminario, anche se non l’ha detto nessuno, era chiaramente messo in evidenza che la pleiotropia, che Mendel aveva scoperto anche se non la chiamava così poiché non conosceva gli alleli, era la base dell’omeopatia e che gli omeopati, quasi come i lombrichi di Darwin, avevano la possibilità di svolgere un ruolo importantissimo nella storia dell’umanità. Purchè riconsiderassero la filosofia hahnemanniana in una cornice meno strettina e si rendessero disponibili a imitare i lombrichi nel proporsi come aratri naturali per fertilizzare l’humus della pratica medica futura.
Il seminario anche nel titolo prevedeva una proiezione della disciplina cercando di eliminare il carattere eleusino, che sfortunatamente l’aveva accompagnata per molti anni, e simultaneamente faceva intravedere la possibilità dell’uso dell’enorme patrimonio culturale, che pazientemente era stato accumulato per due secoli dagli omeopati, per la formulazione di una proposta che è da ritenersi rilevante da un punto di vista di impatto sociale. È logico che l’attenzione dei più si sia sentita soddisfatta e satolla nel constatare che la loro azione professionale, dopo decenni di sanguinose persecuzioni, veniva supportata scientificamente da prove sperimentalmente incontrovertibili, che verranno riassunte nei paragrafi successivi e prevedibilmente costituiranno strumento di rivalsa nei confronti degli esponenti della medicina ortodossa che non si erano certo risparmiati nelle loro critiche con locuzioni sprezzanti. Ma una volta andati a letto sognando di far loro le boccacce e digerito il sentimento di euforia che la anelata realizzazione di cotale evento provocava, ritengo che costituisse una giustificata aspettativa il ripensare e l’evidenziare quello che secondo me è da definirsi più che un corollario, addirittura un lemma del teorema generale del seminario stesso che si ritrovava nella proposta implicita sopra enunciata. Lemma che, a differenza dei dati sperimentali, ha contorni sfumati, anche perché la loro definizione richiede una scelta collettiva e soggettivamente condivisa, con prevedibile gioia degli estensori di documenti verbosi, inconcludenti e ispirati da pretese ieratiche. Ma, come ho avuto modo di affermare nel seminario, l’omeopatia ha la caratteristica non esaltante di sentirsi come la democrazia e come tale di basarsi sul dissenso. Pertanto le pulsioni dei vecchi ideosi, come me, e delle aspiranti prime donne vanno accettate come fatto fisiologico. Ma le cose son più semplici se si guardano dall’alto, non foss’altro che per mettere i medici a loro agio visto che sono soliti farlo coi loro pazienti, che per natura e libera scelta preferiscono stare in ginocchioni.
La condizione umana è diversa dalla natura umana, anche solo per il fatto che i fattori che le condizionano nel loro divenire operano su scale differenti. Tuttavia si può affermare che se fosse possibile normalizzare tali scale rispetto allo stesso sistema di riferimento, esse apparirebbero divergenti perché i tempi che regolano l’evoluzione della società umana sono patentemente più rapidi di quelli che condizionano la plasticità biologica dell’organismo vivente. Poiché tali tempi sfuggono al controllo predeterminato, la soluzione più ragionevole è cercare di attenuare artificiosamente questa divergenza. Questa è la ragione per la quale la cosiddetta medicina anti-invecchiamento, che è finalizzata alla prevenzione della malattia e all’estensione della durata della vita in uno stato di benessere, sta raccogliendo lo stesso interesse di quello che riceve la medicina che tradizionalmente mira a migliorare le metodologie di cura della malattia.
Nella pratica, se nel recente passato l’attenzione degli operatori della salute era principalmente rivolta alla comprensione della genomica, si sta sviluppando un interesse sempre più crescente nei confronti della genetica e dell’epigenetica, che mostrano come l’inquinamento, la nutrizione e lo stile di vita possano influenzare significativamente la risposta metabolica di un organismo vivente. Pertanto mentre le strategie degli organi pubblici deputati alla salvaguardia della salute si manifestano attraverso una progressiva regolamentazione dei fattori ambientali per minimizzare l’effetto di agenti tossici e pericolosi, lo sviluppo della proteomica e della metabolomica sta mostrando come gli xenobiotici, cioè tutti i fattori di stress che provengono dall’esterno come perturbanti di qualsiasi sistema autopoietico, siano importanti nel determinare l’espressione genica del DNA, che per sua natura è pleiotropica. Questa considerazione è all’origine della proposta avanzata da più parti (nell’ambito del seminario l’ha accennato Edward Calabrese) di utilizzare le risposte biologiche di tipo ormetico come scudi biologici nei confronti delle perturbazioni dannose.
L’ormesi è la risultante delle leggi che governano l’organizzazione di un sistema complesso, quale una semplice cellula o una collezione di cellule, nella sua evoluzione dinamica. Sottolineo il concetto di risultante che tutt’oggi non è ben compreso da molti omeopati tanto che, forti della loro incomprensione, si adoprano con passione a sottolineare la distinzione fra ormesi e omeopatia come se entrambi non riguardassero lo stesso fenomeno di reattività di un sistema biologico in stato di non-equilibrio in risposta a una perturbazione.
E’ anche vero tuttavia che l’equivoco è determinato dal fatto che Hahnemann fece quella scelta sfortunata, che abbiamo ricordato prima, adottando una visione dinamicistica non giustificata da nulla, se non da una strampalata ipotesi sulla succussione. Ed è naturale che per uno che seguita nell’errore, in effetti l’ormesi non abbia un senso. Imperocchè, caratterino di Hahnemann a parte, uno non è un buon discepolo se accostandosi fideisticamente agli insegnamenti del maestro, non rifugge dal peritarsi a contestarne le scelte. Anche se questo è il motivo che non ha permesso lo sviluppo della scienza in oriente, ma pazienza: non si può pensare a tutto, e se anche gli omeopati in occidente si sbucciano i ginocchi nel sentir qualcuno ripetere le sentenze del maestro, non è un fatto drammatico. Peccato che Anassimandro, Anassimene e Pitagora ripensarono a quanto aveva detto Talete e gli dissero garbatamente che non erano proprio d’accordo sui contenuti dei suoi insegnamenti e la differenza si è vista: la scienza in occidente è nata per questo motivo e in oriente è rimasta ingessata. Ma al di là della scritta “premiato hahnemmanniano ossequiente” sul biglietto da visita rilasciata dalle numerosissime organizzazioni deputate a mantenere l’integrità del pensiero del fondatore, uno che si propone di capire come funziona un organismo e pretende di raccomodarlo non può trascurare il fatto che l’ormesi sia un fenomeno del tutto generale, anche se viene indicato con nomi diversi a seconda della disciplina: risposta bifasica in farmacologia, risposta adattativa in fisiologia, antagonismo funzionale in enzimologia, principio di azione e reazione in dinamica, principio di Le Chatelier in chimica, ormesi in tossicologia e così via. Così come non può sfuggire il fatto (o forse conoscendo i medici sì) che tutti questi fenomeni vengano matematicamente espressi con lo stesso sistema di equazioni differenziali del primo ordine indipendentemente dalla terminologia adottata in una particolare disciplina. Di fatto l’ormesi è l’espressione pleiotropica di un programma genetico mirato alla sopravvivenza e alla difesa del sistema biologico.
Nella proposta degli scudi biologici, che abbiamo ricordato, la definizione di ormesi come presunto effetto benefico sul sistema biologico indotto da una limitata quantità di uno xenobiotico (o di un trattamento) che è dannoso ad alte dosi, deve essere letto in senso di precondizionante, ovvero “l’ormesi descrive un fenomeno nel quale una prioritaria esposizione a basse dosi di un agente perturbante induce risposte adattative che forniscono una protezione transitoria a successive esposizioni a dosi dannose dello stesso agente”. Sottolineo l’attributo “transitorio” poiché bisogna introdurre la dimensione tempo per una piena caratterizzazione della dinamica dell’evento biologico. Poco importa se alcuni distinguono pedantemente se la risposta derivi da una stimolazione diretta o alternativamente da una sovracompensazione dell’omeostasi che è il risultato della reazione del sistema alla perturbazione. Non cambia niente: la relazione dose-risposta è sempre bifasica ed si manifesta con tutti gli agenti perturbanti. Quindi va vista più propriamente come una emergenza cooperativa di più processi a livello cellulare che portano il sistema a convergere a uno stato omeostatico (o meglio omeoretico) caratterizzato da una più alta resistenza.
La quantità di dati sperimentali che supportano questa ipotesi è enorme. Gli effetti benefici di regimi dietetici moderati e di una attività fisica non stressante sulla salute e sullo stato di benessere sono indiscutibili e sono spiegati in gran parte in termini di meccanismi ormetici. E allora, vien da chiedersi, perché gli omeopati non fanno propria l’ormesi precondizionante e non la sfruttano a scopo protettivo? Infatti, utilizzando argomenti similari molti studi stanno dimostrando come l’ormesi precondizionante possa essere importante nel determinare un trattamento preventivo per molti inconvenienti patofisiologici a livello farmacologico.
Ci sono due ragioni fondamentali che portano a sottolineare la preferenzialità di questo modo di procedere. La prima è che è ragionevole credere che quando lo scopo terapeutico è la protezione dell’organismo, l’assunzione di una piccola dose di un farmaco implichi un numero minore di controindicazioni e di effetti collaterali rispetto all’assunzione di una grossa dose di un altro farmaco ritenuto appropriato. La seconda è che l’utilizzazione di un trattamento farmacologico pesante può presentare molti inconvenienti se viene a essere sottodosato, come è ben conosciuto per esempio nel caso degli antibiotici. Ma il vero aspetto che i farmacologi non vogliono intendere, e che gli omeopati dovrebbero fare proprio, è che l’accettazione di questo modo di pensare postula una rivoluzione della farmacologia ortodossa, visto che per esempio un farmaco antitumorale a alte dosi, promuove la proliferazione delle cellule cancerose a basse dosi. Il che implica che si debbano ridisegnare le terapie tenendo conto in primis della farmacocinetica.
Il punto critico dell’ormesi precondizionante è dovuto invece alla definizione della dose da utilizzare perché il range di dosi che inducono una risposta significativa è piuttosto limitato e l’intensità della stimolazione non è particolarmente grande (30-60% in più rispetto al riferimento). C’è inoltre da osservare che la reazione ormetica può interessare più sistemi di risposta in funzione della quantità di dose. E’ questo il risultato più significativo di un lavoro di cui sono coautore nel quale si mostra che lo stesso sistema biologico dà tre risposte ormetiche diverse quando trattato con soluzioni acquose di ione rameico di concentrazione 10 alla -10, 10 alla -13 e 10 alla -16 M.
Con questo vengo a giustificare quanto predicato dagli omeopati che attribuiscono alla potenza del rimedio omeopatico un ruolo ben preciso. E questo, mi dispiace dirlo, non è chiaro ai non omeopati, come per esempio allo stesso Calabrese che non lo vuole riconoscere. Pertanto il lavoro da svolgere è immenso e per questo motivo in questa nota sto suggerendo che duecento anni di osservazioni idiografiche compiute dagli omeopati costituiscono un patrimonio insostituibile da utilizzare come piattaforma per sviluppare l’ormesi precondizionante come paradigma per la medicina del futuro.
Per finire c’è da considerare che l’ormesi postcondizionante, cioè l’assunzione di una piccola dose di farmaco scelto opportunamente per rimuovere una anomalia fisica in essere, è la base sulla quale si fonda l’omeopatia attuale, ma fin qui non ho voluto discuterne, sperando che altri più competenti di me possano occuparsene in futuro.
Il seminario del 15 marzo a Firenze ha avuto il merito di puntualizzare che l’omeopatia va interpretata come farmacologia delle microdosi o, se si vuole, delle nanodosi e in questo non è differente dalla farmacologia ortodossa, a parte il fatto che l’omeopatia sfrutta il meccanismo ormetico associato all’interazione farmaco-substrato biologico che l’ortodossia cerca di evitare. Questo è stato il risultato di una decisione mirata a stabilire due cose elementari che il mondo dell’omeopatia si era guardato bene dal considerare macchiandosi, scusatemi il linguaggio crudo, di colpevole ignavia. Infatti non era dato sapere cosa definisse un medicinale omeopatico a livello chimico-fisico né tanto meno conoscere se tale farmaco potesse influenzare la risposta di un substrato biologico o funzionasse più semplicemente da santino.
Va da sé che questi erano i prolegomeni che permettevano la teorizzazione della metodologia terapeutica e che se non ci si metteva un punto fermo, si continuava a parlare di sesso degli angeli, ancorchè questa potesse costituire una adorabile consuetudine. Una volta stabilito quale fosse il ruolo misterioso della succussione, che è stata dimostrata essere l’origine di una banale reazione acido-base in senso di Lewis che porta alla stabilizzazione di addotti soluto-soluto in un gioco sottile di energie di solvatazione, che la cosiddetta potentizzazione era solo un concetto formale a causa della disomogeneità della soluzione del farmaco, che gli studi di reattività biologica dimostravano la validità della metodologia terapeutica indicando che la risposta del substrato era di tipo ormetico, penso che tutte le pregiudiziali spesso artificiose e spesso no avanzate dai critici dell’omeopatia siano venute a cadere e che questi ultimi possano finalmente trovare il tempo per meditare sui propri difettucci, invece di pensare a quelli degli altri.
Per contro penso che sarà dolorosa la rinuncia da parte di alcuni omeopati al culto del mistero mirato a supportare una visione filosoficamente postmodernista, giacchè la mancanza di una visione unitaria del mondo con la possibilità di numerose cointerpretazioni più o meno razionali della stessa fenomenologia c’ha indubbiamente il suo fascino. Ma al pari di un fato matrigno, l’evidenza sperimentale porta a dover dare addio alla memoria dell’acqua, addio alle fantainterpretazioni del principio di non-località, e pure addio alle strutture coerenti che sono pretese inferire informazione sulla base di raffinati calcoli di meccanica quantistica, dimenticando che per esempio se un farmaco omeopatico fosse nato con il big-bang, la stessa meccanica quantistica prevede che la sua capacità di informazione possa mantenersi per non più di 10 alla -23 secondi per una soluzione di 1 ml di acqua (un po’pochino anche per un ottimista).
È il momento di apprezzare la funzione dei lombrichi, considerando che in fin dei conti anche noi non siamo che animaletti nati casualmente su un pianetuccio marginale che orbita intorno a una stella di serie C. La proposta sottesa che è apparsa nel seminario introduttivo del Convegno Siomi, al di là del supporto scientifico, può avere conseguenze significative a livello di un suo potenziale impatto sociale e può essere l’inizio di una evoluzione dell’omeopatia tradizionale verso un ruolo di protagonista delle scienze omiche. Ci riusciranno gli omeopati a prenderne coscienza e a partecipare allo sviluppo della medicina futura guardando con orgoglio al loro passato?
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