Si fa presto a dire scienza

di Mattia Ferrareri, su “Il Foglio” del 25 maggio 2020

La pandemia ha mostrato il divario fra la scienza e La Scienza. La prima è l’umile esercizio della conoscenza della realtà secondo metodi specifici; la seconda è la sua parodia magica e onnisciente che abita nella coscienza collettiva. L’una e l’altra normalmente si confondono, abbracciate come sono nel grande fraintendimento epistemologico e comunicativo dei nostri tempi, ma le circostanze straordinarie che il mondo si trova ad attraversare hanno in qualche modo contribuito a distinguere e separare.

E’ di moda dire che la crisi è un’opportunità, dunque tanto vale allinearsi al luogo comune e cogliere l’occasione per fare qualche precisazione attorno allo statuto della scienza e alle esorbitanti pretese di alcuni suoi presunti seguaci. Nell’affrontare la minaccia globale di un nuovo virus si è visto con rara chiarezza che la scienza, con la minuscola, è fatta di congetture. Il suo dibattito si articola in ipotesi competitive, faticose verifiche sperimentali, approssimazioni, certezze provvisorie, cambi di paradigma, scontri metodologici, fragili verità che appena conquistate vengono immediatamente rimesse in discussione. Per la scienza, la falsificazione di una teoria è un momento felice, perché escludere con un ragionevole grado di certezza una strada sbagliata significa fare un piccolo passo verso una strada giusta. Anzi, una strada più giusta. E’ il regno dell’incerto e del discutibile, abitato da metodologie fra loro in tensione e anche da ampi spazi dove incertezza e mistero dominano.

In alcuni ambiti, gli scienziati possono arrivare ad essere certi dell’incertezza e a dimostrare l’indimostrabilità, occorrenza notevole e vertiginosa. La scienza è orientata innanzitutto alla descrizione dei fenomeni, non alla previsione di quello che verrà, ed è ancorata all’ignoranza autocosciente di Socrate: non solo “non so”, ma “so di non sapere”. Lo scienziato che ammette di non sapere non tradisce la sua vocazione scientifica, la compie.Non è in questo modo, tuttavia, che si presenta La Scienza. La cugina maiuscola è una rappresentazione su sagoma cartonata che assomiglia solo per sommi capi all’originale. E’ una sua versione semplificata fino allo sfiguramento.

La Scienza è rapida, univoca, rigida, i suoi metodi sono chiari e condivisi, il suo potere di individuare, descrivere e trasformare la realtà non è soltanto enorme, ma viene esercitato secondo meccanismi che sono quasi del tutto privi di frizioni e incoerenze. Le sue conclusioni vanno accettate con trasporto fideistico. Le nozioni validate da La Scienza sono presentate al mondo come irrefutabili, e la dimensione comunicativa non è accessoria per una pratica che ha come orizzonte ultimo quello della persuasione: la scienza descrive, spiega; La Scienza convince.

Espressioni tratte dal registro giornalistico come “cosa dice la scienza” o “la parola alla scienza” testimoniano l’equivoco: ci appella alla scienza ma si intende in realtà La Scienza, quella che con voce unica pronuncia parole definitive su un determinato argomento. La fallibilità è un tratto soltanto accidentale, una dimensione temporanea e necessariamente superabile. La sua massima è: oggi non sappiamo, domani sapremo. Il suo oggetto è l’ignoto, vale a dire ciò che ancora non è noto, il che esclude l’incertezza come fatto strutturale nell’attività di ricerca.Alla Scienza, cosa fondamentale, è attribuita una sconfinata capacità predittiva: ci si aspetta che possa predire il futuro in modo quasi infallibile, secondo una logica lineare espressa in modo efficace dall’algoritmo, l’onnipresente strumento che elabora scenari futuri sulla base di elementi presenti. La Scienza è il perno della stagione del grande tecno-entusiasmo elaborato negli anni Zero divenuto sistema negli anni Dieci, il periodo in cui molti nella Silicon Valley sono arrivati ad annunciare perfino la fine della teoria scientifica, mandata in soffitta dall’avvento del puro dato: “Con abbastanza dati, i numeri parlano da sé”, scriveva nel 2008 l’allora direttore di Wired, Chris Anderson. Quel tipo di visione si è rapidamente sedimentata nella coscienza collettiva, diventando la koiné del nostro tempo.

Quando il ministro per gli Affari regionali, Francesco Boccia, ha chiesto alla comunità scientifica, tramite un’intervista al Corriere della Sera, “di darci certezze inconfutabili e non tre quattro opzioni per ogni tema” non ha detto soltanto una sciocchezza epistemologica da seconda metà dell’Ottocento, ma ha dato voce a un sentimento di frustrazione popolare intorno a una scienza che non riesce nemmeno a mettersi d’accordo sull’efficacia delle mascherine. Boccia aveva in mente La Scienza, non la scienza, e non gliene si può fare una colpa. La voce inconfutabile de La Scienza è quella più richiesta nei salotti televisivi, nei consigli di amministrazione, nei governi che vogliono di pezze d’appoggio firmate da “esperti” per prendere decisioni, nei consessi internazionali, nelle redazioni, nei comizi, nelle discussioni pubbliche in cui “tre o quattro opzioni” vengono presto a noia.

Il testo del patto trasversale per la scienza che nel gennaio 2019 ha messo d’accordo Beppe Grillo e Matteo Renzi è un esempio perfetto di questa concezione del discorso scientifico: “Tutte le forze politiche italiane si impegnano a sostenere la Scienza come valore universale di progresso dell’umanità”, esordisce un documento in cui il sapere scientifico emerge come nozione monodimensionale, l’apoteosi della semplificazione. Fatalità della grammatica, gli estensori hanno scelto la maiuscola.

La lunga stagione del populismo ha svilito la scienza, ma ha dato enorme vigore a La Scienza. Da Donald Trump al Movimento 5 Stelle fino a Vladimir Putin e Jair Bolsonaro, la contestazione del sapere scientifico e delle competenze – e delle élite a queste associate – ha esaltato, per necessità di contrasto, il dogmatismo de La Scienza. Lo spettro minaccioso di un fronte Anti Scienza ha rafforzato la percezione che fosse urgente gettarsi con rinnovato ardore religioso sulla Scienza, attività che ha avuto come effetto quello di ricalcare con un pennarello indelebile i preesistenti confini di un mondo rozzamente diviso fra pro vax e no vax, esseri razionali e ingeritori di idrossiclorochina, credibili e cialtroni, adepti dell’evidenza e ubriachi della superstizione, illuminati e cavernicoli. Chi non crede all’inconfutabile verità della Scienza è automaticamente un demente che vorrebbe curare il cancro con le tisane. Su questo sfondo non stupisce che un ministro della Repubblica, facendosi involontariamente portavoce dello Zeitgeist, abbia fatto alla scienza una richiesta totalmente assurda.

Nell’emergenza globale del Covid-19 gli scienziati si sono contraddetti, accapigliati, scontrati e all’occorrenza anche denunciati su tutto, dalle mascherine ai tamponi, dai test sierologici all’origine del nuovo coronavirus, dalle modalità di trasmissione all’estensione del contagio, dalla carica virale degli asintomatici ai presunti segni di indebolimento del virus. Comitati scientifici di mezzo mondo hanno offerto valutazioni anche radicalmente contrastanti sull’evoluzione dell’epidemia e così gli stati, e perfino i singoli enti locali, hanno disposto piani d’intervento tra loro molto diversi. Casi oggi considerati virtuosi, come lo stato di Washington e il Veneto, sono il frutto di strategie che violavano apertamente le indicazioni del Centers for disease control and prevention, dell’Istituto superiore di sanità e dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, gli apparenti garanti di un qualche consenso scientifico.Questo articolato dibattito, che dal vivace è scivolato spesso nel feroce, è perfettamente normale per la scienza, ma è uno scandalo imperdonabile per La Scienza, che rifugge la complessità. L’opinione pubblica, abituata alla semplificazione de La Scienza, ha scoperto così che nel perimetro dove si muovono gli scienziati accreditati, con cattedre importanti e carriere costellate di ricerche rigorosamente riviste tra pari, ci sono scuole di pensiero fra loro in aspro conflitto. Nel campo dell’epidemiologia, ad esempio, hanno piena cittadinanza scienziati che lavorano con le simulazioni basate su modelli matematici, come l’inglese Neil Ferguson dell’Imperial College, eroe della previsione pandemica, e clinici rigorosamente devoti al metodo evidence-based che non si affidano ai modelli astratti in assenza di studi randomizzati su pazienti reali, come John Ioannidis di Stanford. Quest’ultimo ha scritto che la risposta alla pandemia è stata “un fiasco”, perché basata su “dati totalmente inaffidabili”.

Anche all’interno di queste scuole metodologiche non mancano i disaccordi, gli errori marchiani, le felici coincidenze. I modellisti a volte elaborano modelli buoni, a volte no. Gli studi di Ferguson e dei suoi colleghi hanno anticipato con buona approssimazione quello che poi si è verificato, e i devoti de La Scienza lo hanno portato in trionfo; ma Ferguson era lo stesso che nel 2005, sviluppando modelli sull’influenza aviaria, prevedeva la morte di 200 milioni di persone. Alla fine di quell’anno, i morti per H5N1 erano 74, e l’intera epidemia ha fatto qualche centinaio di vittime. L’esperto britannico è un luminare o un cialtrone? Ecco un dilemma buono per La Scienza, pessimo per la scienza. Ferguson è, più semplicemente, uno scienziato.Dalle nostre parti, dove anche alla virologia riesce di prendere la china della commedia all’italiana, il dissenso fra scienziati è passato dalle denunce contro i “virologi della domenica” a “questi li ascriviamo alla categoria dei pagliacci”. Qualche esperto in camice ha anche spiegato ai cattolici gli effetti della transustanziazione sul R0.

Gli scienziati sono umani, e questo si sapeva, ma anche Gli Scienziati lo sono, e questo era invece un po’ meno chiaro. Capire chi, in questo conflitto globale delle interpretazioni, ci ha indovinato e chi invece ha toppato ha forse una qualche rilevanza ai fini della circostanza particolare (e drammatica) che il mondo sta vivendo; ma la questione dello statuto della scienza, dei suoi limiti, dei suoi ideali autentici, del suo rapporto con La Scienza che vive nelle aspettative dell’opinione pubblica, è anche più gravida di implicazioni e conseguenze. Per affrontarne alcune occorre interrogare non solo gli scienziati, ma anche i filosofi, che si occupano della sofia, oltre che dell’episteme.

Il Foglio ha raccolto le riflessioni di alcuni osservatori. Il matematico colombiano Fernando Zalamea, professore alla Universidad Nacional de Colombia, dove si occupa fra le altre cose di filosofia della matematica, non crede che la scienza uscirà da questa situazione più debole. Al contrario, la sua immagine sarà rafforzata. “E’ naturale che la scienza proceda per tentativi ed errori, lo ha sempre fatto. Ma ora questo processo è stato molto più osservato dall’opinione pubblica e il suo metodo è risultato attraente. Perfino la matematica, apparentemente così chiara e sicura, procede spesso per correzione degli errori (è il metodo delle congetture, con cui avanza la conoscenza scientifica). Dopo i naturali dubbi iniziali nella risposta al Covid-19, quando verranno messi a punto i vaccini, la scienza sarà vista, in maniera esagerata, ovviamente, come la ‘salvezza’ dell’umanità. Un discorso molto diverso riguarda invece l’appropriazione, oppure la sfida, della scienza da parte della politica, i cui effetti sono particolarmente disastrosi. Le politiche di Trump sono un esempio di incompetenza che rimarrà nella storia”. Allo stesso tempo, dice Zalamea:

La scienza ha acquisito terribili componenti dogmatiche, conseguenze di un neopositivismo ‘duro’ e del metodo analitico, che frammentano la conoscenza. La logica che sta alla base del neopositivismo e dei dogmi analitici è classica, binaria: si applica la legge dell’‘essere o non essere’. La realtà della scienza, invece, non è dogmatica, è sempre in evoluzione, ed è governata esternamente da una logica dinamica, non binaria. Il pensiero contemporaneo deve cambiare la logica: questo il ‘buon senso’ non l’ha ancora capito.

La pandemia può essere l’occasione per una riflessione della scienza sui suoi limiti?

Penso che i limiti della scienza siano molto chiari, dice Zalamea, almeno dai teoremi di incompletezza di Gödel in matematica. A maggior ragione le altre scienze ‘esatte e naturali’ sono ben consapevoli dei loro limiti. In effetti, forse l’idea più importante della scienza è la negazione: il limite delle condizioni di verità, il pensiero dell’altro, la comprensione dei limiti di ogni frammento di conoscenza. Altra cosa, invece, è la lettura esterna che è stata fatta del metodo scientifico e che trasforma la scienza in una sorta di ‘Prometeo contemporaneo’.

Il filosofo Giovanni Maddalena, professore di Filosofia della comunicazione all’Università del Molise, spiega che la smisurata fiducia nel potere delle scienze naturali di spiegare e risolvere è figlia di una più generale idea della conoscenza che si è affermata nel discorso pubblico negli ultimi decenni. “La conoscenza è intesa sempre e solo come conoscenza analitica. Non siamo mai usciti dal modello di Kant: una certezza si ottiene soltanto attraverso modelli meccanici, e non attraverso modelli organici”.

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