Quando l’estremizzazione della medicina non fa il bene del paziente

di Gino Santini, su “Omeopatia33” del 13 dicembre 2019

Quali sono le conseguenze di un atteggiamento “estremizzato” di fronte a una problema? Sembra una questione da poco, ma in realtà la risposta a questa domanda ci coinvolge tutti nel nostro quotidiano, figuriamoci a livello professionale. E così un medico che estremizza la propria visione clinica e terapeutica rende un pessimo servizio al paziente perché perde una preziosa risorsa di elasticità a favore di un presunto vantaggio di tranquillità personale, magari racchiuso nell’evitare una causa medico-legale da parte di un paziente insoddisfatto. Ma non è un atteggiamento che possiamo definire ottimale, poiché in questo modo si evitano solamente responsabilità personali a favore di una strategia sicura e priva di rischi, perché impostata da altri (ai quali eventualmente dare la colpa di un insuccesso). Sicuramente una strada comoda per il medico, non necessariamente per il paziente.
Ci si domanda allora quanti pazienti sarebbero contenti di un medico del genere. Probabilmente tutti quelli che, in cuor loro, auspicano il miglior trattamento possibile al loro problema. E andrebbe tutto alla perfezione, se non fosse per un piccolo particolare: ad oggi per molte patologie, soprattutto quelle con caratteristiche di cronicità, non possiamo affermare di avere sviluppato strategie ottimali, ma solo buoni compromessi, nella migliore delle ipotesi. E allora finisce che il paziente volge lo sguardo altrove e si rivolge ad altre figure, come l’omeopata, che allo stesso modo deve evitare di estremizzare la sua visione “complementare”, perché cadrebbe nello stesso identico errore. Da qui la necessità di integrare tra loro strumenti diversi da utilizzare in momenti diversi, ma senza pregiudizi e nessuna esclusione a priori, mantenendo intatti tutti i vantaggi delle singole metodologie: in estrema sintesi, un approccio di Medicina Integrata.
Ci rendiamo conto che è una strada lunga e ricca di ostacoli, posti soprattutto da coloro che in tal modo potrebbero essere costretti ad allargare visioni ad oggi chiuse da paraocchi di comodo (e ci riferiamo anche agli omeopati), a favore di una visione che accosta altre soluzioni a quelle già messe a disposizione, per esempio, dalle Linee Guida. Che sono eccezionali e necessarie in tanti casi, ma che molte volte non tengono conto dell’impatto che la terapia ha sul paziente e sulla sua qualità di vita. Anche il medico che vorrebbe praticare qualcosa in più della “medicina delle evidenze” dura e pura potrebbe sacrificare un pizzico della propria tranquillità professionale, rivedendo posizioni troppo rigide; è ora di parlare di “medicina della vita reale” e di “esiti riferiti dal paziente” in relazione a terapie di ampio respiro che stanno mostrando più di qualche scricchiolio se valutate dal punto di vista di chi è obbligato ad assumerle per anni. Di certo, è necessaria una ridefinizione del punto di vista partendo da chi “ospita” una patologia cronica. E quando il paziente torna ad assumere un ruolo centrale, è sempre una buona notizia.

Gino Santini
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Direttore dell'Istituto di Studi di Medicina Omeopatica di Roma. Segretario Nazionale SIOMI. Giornalista pubblicista. Appassionato studioso di costituzioni e del genere umano.

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