di Andrea Dei, da “Omeopatia33” del 9 luglio 2021
La legge di Arndt e Schulz ha più di un secolo di vita e, limitandosi a un aspetto specifico, stabilisce che la risposta di un organismo in seguito a una perturbazione, quale ad esempio l’assunzione di un farmaco, dipende dalla intensità della perturbazione, i.e. dalla dose di farmaco. I dati sperimentali mostrano che le funzioni biologiche vengono stimolate a basse dosi, mentre ad alte dosi vengono inibite. La spiegazione va trovata nella plasticità biologica di un sistema cellulare, che comporta l’omeostasi e l’evoluzione. Poiché Arndt era uno psichiatra omeopata, tale legge fu postulata giustificare il principio del “similia similibus curentur” che è alla base del pensiero hahnemaniano. La fenomenologia ad essa associata è stata definita con molti nomi, ma oggi si suole indicarla con il termine di ormesi.
Come spesso la storia insegna, il concetto di ormesi trovò la fiera opposizione sia dei seguaci della medicina ortodossa che degli stessi omeopati a causa della suggerita connessione con la metodologia omeopatica. Tuttavia lo sciocco vizio dei primi a tenere conto di fatti sperimentali incontrovertibili portò alla riscoperta e definizione dell’ormesi negli anni Novanta soprattutto grazie al lavoro di Edward Calabrese che, da buon tossicologo, si guardò bene di accostarla all’omeopatia, incoraggiato in questo anche dalla totale indifferenza del mondo della stessa omeopatia. Come conseguenza, al pari del De Rerum Natura di Lucrezio che fu volutamente nascosto dai padri della Chiesa e riscoperto per caso, dall’inizio del secolo, l’ormesi compare nei testi di farmacologia. Gli omeopati per contro, essendosi ritrovati su un piatto di argento la giustificazione della loro terapia, ci videro, oltre alla solita pastoja frutto della stupida razionalità, un attentato al loro anelito di libertà esistenziale che consentiva il diritto di operare professionalmente al di fuori di schemi imposti, che precludevano la possibilità di formulare l’espressione del loro eclettismo. Il risultato è che fecero di tutto per non considerarla. Di conseguenza quando la SIOMI, circa quindici anni fa, adottò l’ormesi a giustificazione dell’omeopatia, gli anatemi, gli insulti e i vituperi del resto delle società omeopatiche si sprecarono.
Ne’ comportamento diverso ha assunto la maggioranza dei membri dell’ECH (European Committee for Homeopathy), quando l’autore di questo scritto ha parlato di ormesi. Alcuni non ne avevano mai sentito parlare e se una minoranza era incuriosita, le voci di condanna e compatimento della maggioranza sono suonate impietose. Perché se l’ormesi poteva essere giustificata nella farmacologia ortodossa, nulla poteva avere a che fare con l’omeopatia, sia perché Hahnemann non ne aveva mai parlato (e questo era già altamente indicativo), sia perché tale modello non giustificava l’effetto terapeutico dei farmaci ultradiluiti. Il numero di Avogadro rimane l’ossessione primaria dell’omeopata e l’evidenza sperimentale che la presenza di nanoassociati a tutte le diluizioni comporti il superamento di tale problema, come peraltro sostenuto dalla SIOMI a dispetto dei più, induce inaccettabili turbamenti interiori, perché annulla la commistione fra fantasia e realtà, che nel mondo dell’omeopatia è ritenuta un diritto inalienabile.
Mentre cotale trista diatriba era in corso, è uscita una review di Dana Ullman (Dose Response, 2021, 1-13) che si occupa direttamente del soggetto. L’autore, che chiaramente risente della cultura della New Age, è un grande comunicatore e ha pubblicato numerosi libri sull’omeopatia. Anche se il fatto di non essere medico (il titolo MPH, cioè Master in Public Health, non è un titolo riconosciuto) lo limita nell’esercitare ufficialmente l’attività professionale di visitare i pazienti. La review è scritta molto bene ed è molto chiara. In essa si riafferma la validità del principio: omeopatia uguale a nanomedicina, sostenuto anche dalla SIOMI e contrastato dai più. Tuttavia parlando di ormesi e farmaci ultradiluiti non rifugge dalla rivisitazione della memoria dell’acqua secondo la versione dell’indiano Upadhyay, che figura come consulente ufficiale della review. Upadhyay, dopo aver avversato in passato l’esistenza dei nanoassociati nelle soluzioni dei prodotti omeopatici e aver sostenuto l’epitassia (che implica la negazione di una interazione diretta delle molecole di un farmaco con un substrato biologico), si è dovuto ricredere e ha dovuto ammettere l’esistenza dei nanoassociati. Lo fa però formulando un modello personale che implica il trasferimento di informazione dai nanoassociati alle molecole d’acqua che costituiscono la zona di esclusione, una nanozona che si viene a costituire alla superficie dell’acqua a causa della diversità delle interazioni intermolecolari che si trovano in superficie rispetto a quelle del resto della soluzione.
In altre parole sono le molecole di acqua informate a condizionare l’attività biologica del farmaco. Infatti Upadhyay parte dal fatto che l’acqua da diamagnetica diventi paramagnetica una volta a contatto con l’aria. L’idea che l’evento sia dovuto al fatto che si sciolgano molecole di ossigeno, che sono paramagnetiche, non gli è venuta. Più semplicemente sostiene che quando salate la pasta, il gusto che ne deriva è dovuto alle molecole d’acqua modificate e non al cloruro di sodio. Il che è sempre un punto di vista, magari deprecabile e purtroppo anche di Ullman.
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