di Andrea Dei, su “Omeopatia33” del 6 maggio 2010
Francis Bacon e io non siamo andati mai d’accordo. Personalmente nella mia visione desueta lo ritengo il mentore e il mallevadore di una ideologia scellerata, ma gli riconosco la grande qualità di non esser mai stato figliolo di un paradigma. I grandi hanno il pregio di guardare lontano e non hanno il bisogno di ripararsi con ombrelli fideistici, ne’ tanto meno preoccuparsi di ostentare meccanismi di autodifesa. Ma a quanto vedo, almeno nel significativo dibattito riportato in questo numero di Omeopatia 33, l’esempio del grande filosofo che, amo ricordare, ha contribuito in maniera determinante all’indirizzo del pensiero dominante della moderna civiltà occidentale, non sembra avere raccolto proseliti.
Dal mio punto di vista l’esistenza di una correlazione fra ormesi e omeopatia è un fatto puramente marginale, dal momento che sono espressioni di due esigenze diverse. Il dibattito non è originale e ripercorre una storia vecchia di più di un secolo, ma l’evento descritto ha pur sempre una importanza rilevante. Da una parte la riscoperta di una fenomenologia volutamente e colpevolmente sottovalutata dai tossicologi e dai farmacologi del secolo scorso e che ha trovato in Edward Calabrese il Mahatma che si è battuto per il suo riconoscimento. Dall’altra gli omeopati che per anni l’hanno rifiutata nel timore di ledere una qualche certezza dottrinaria, che procurava loro il vantaggio di vedere il mondo in discesa e illuminato da un arcobaleno con qualche colore in più oltre ai soliti sette.
Purtroppo il mondo dell’evoluzione delle conoscenze le discese le ignora e i suoi sentieri sono purtroppo percorribili solo in salita. E questo richiede modestia intellettuale, che la gran parte degli omeopati anche in questa occasione ha dimenticato di dimostrare. Il risultato, come riassunto dalle conclusioni di Calabrese e Jonas, non è completamente da rigettare, ma è sicuramente deludente per chi auspica una evoluzione del pensiero medico, visto che gli autori omeopati e non, di fronte al dato scientifico reale qual è quello previsto dall’ormesi, nella gran parte dei casi hanno provveduto a contorcersi in una serie di distinguo pleonastici e facoltativi.
Eppure la risposta non era troppo difficile. Per un medico non mi sembra possa costituire impedimento il ritenere l’organismo una stupida macchina utile e transitoria concepita dai propri geni per il loro perpetuarsi. L’ormesi è la risposta cooperativa dell’insieme dei geni alla perturbazione esterna e ha un fondamento termodinamico ben definito. Talchè se sotto questo punto di vista non costituisce meraviglia il fatto che, al di là del concorso dei meccanismi operativi, si abbia sempre un effetto stimolatorio o inibitorio in funzione dell’intensità della perturbazione, non si può non sottolineare come l’assunzione di un cotale tenet abbia un effetto devastante sulle concezioni terapeutiche accademiche.
Questo è il fatto fondamentale, perchè consente al medico due diversi tipi di intervento e permette di mandare in soffitta come obsoleta la diatriba omeopatia-allopatia. Accettare questo dà un senso diverso al significato di medicina integrata, ma soprattutto significa credere nell’evoluzione della medicina e della professionalità del medico. Resta il fatto che uno può rimanere ancorato alle proprie tradizioni e continuare a professare le proprie dottrine se lo ritiene opportuno. Il suo contributo professionale non ne soffre in validità, ma c’è da osservare come tale atteggiamento sia intrinsecamente autolimitante e, per certo, alla lunga non preveda un premio.
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