di Marco Gervasoni, da “Il Giornale” del 30 maggio 2020
Ottimo articolo di Marco Geravasoni, Ordinario di Storia Contemporanea “Finché c’è paura, anche di qualcosa di incerto, c’è emergenza - scrive Gervasoni - e finché c’è quella, resterà la strategia della tensione sanitaria, unica polizza sulla vita dell’esecutivo. Oltre che su quella degli scienziati, i quali potranno continuare ad andare in tv a dire: ‘ricordati che devi morire’”
“Respice post te. Hominem te memento”: la folla nell’antica Roma così urlava ai generali vittoriosi, perché non si insuperbissero. Difficile che gli italiani cadano in questo vizio ora, eppure non passa giorno senza che molti scienziati, quasi con teschio in mano come nelle tele seicentesche, rimembrino loro la morte.
Alcuni spiegano che persino un solo contagiato può provocarne migliaia in pochi giorni e che perciò bisognerebbe tenere chiuse le regioni: un monito caduto nel vuoto, visto che dalle notizie di cui disponiamo, si andrà verso una riapertura totale. Altri invece si proclamano certi, perché lo «dicono i numeri», che una seconda ondata verrà dopo l’estate, per cui bisognerà richiudere tutto. Si aggiunga a tutto questo l’allarmismo cavalcato da certi media e avremo non la scienza ma l’«immagine della scienza» come scrive il filosofo Silvano Petrosino.
La scienza moderna è fallibile, l’immagine della scienza è dogmatica, la prima è molto cauta in previsioni, illustrate sempre con prudenza mentre la seconda si lancia in profezie da predicatore millenaristico, la prima ragiona in base a leggi, la seconda si limita a regolarità (ma se una persona cammina sempre sotto le mie finestre alla stessa ora non è detto che lo farà pure domani).
Domina insomma un’idea popolaresca di scienza, in cui lo scienziato, quasi fattucchiera, anticipa il futuro, grazie ai numeri e a dati, che «parlano»: mentre nella vera scienza i dati e i numeri non dicono nulla, vanno sempre interpretati. Anche perché, a fronte del memento mori, del «ricordati che devi morire» di certi scienziati, vi sono le previsioni di altri: che spiegano come il virus stia perdendo forza, forse è mutato, quindi non si vede come possa provocare migliaia di infetti in poco tempo. Quanto alla «seconda ondata», secondo cui in autunno dovremo richiudere tutto, su Le Monde e sul Telegraph di qualche giorno fa diversi scienziati la ritenevano ipotesi incerta, come ha ribadito persino la virologa Ilaria Capua.
In nome quindi di un evento che potrebbe accadere, non apriamo quel che c’è da riaprire, restiamo con mascherine e separatori in plexiglas anche quando non ci saranno infetti, spandiamo un clima di terrore, solo perché il virus forse tornerà? E se un meteorite cadesse prima sulla terra? C’è del metodo in questa follia. Ed è chiamato razionalismo.
L’idea di poter edificare il futuro, che questo compito spetti al governo il quale, in nome di report degli «esperti» e dei «tecnici», sa in anticipo cosa accadrà e quindi predispone dei piani – in questo caso, non costruire ospedali ma chiudere tutto preventivamente. Il termine «piano» non è scelto a caso..Nella storia lo Stato pianificatore per eccellenza è stato quello sovietico: non è finita bene. E sappiamo come molti ministri, se non lo stesso premier, coltivino queste tendenze tecnocratico-pianificatrici, questa sorta di sanitocrazia. Un amore che del resto fa comodo.
Trasformarci in tanti Giovan Battista Drogo, il personaggio del Deserto dei tartari di Buzzati, in attesa di un nemico che forse non verrà, è infatti una «grande occasione» per il governo. Finché c’è paura, anche di qualcosa di incerto, c’è emergenza, e finché c’è quella, resterà la strategia della tensione sanitaria, unica polizza sulla vita dell’esecutivo. Oltre che su quella degli scienziati, i quali potranno continuare ad andare in tv a dire: «ricordati che devi morire»…
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