di Andrea Dei, su “Omeopatia33” del 1° febbraio 2007
L’evoluzione della conoscenza nel campo della medicina avviene attraverso lo scambio di informazioni tra i membri della comunità medica.
Questa proposizione generalmente accettata si ritrova anche nello Statuto della Società Italiana di Omeopatia e Medicina Integrata. Nello stesso statuto si auspica altresì il superamento di un concetto di medicina definito dal primato della comunità accademica per pervenire all’accettazione della “medicina una” che comprenda la convivenza degli approcci terapeutici accademici e non, definiti dai diversi paradigmi. Il proposito è quello di addivenire a un progresso, anche se non è ben definito se si debba trattare di un progresso da o di un progresso verso.
Il punto che risulta viceversa chiarissimo è quello dell’incommensurabilità, nel senso di non confrontabilità e di non paragonabilità, esistente fra i diversi paradigmi. Ricordo di aver sottolineato questo aspetto fin da quando sono stato chiamato a esprimere un giudizio sull’argomento. La possibilità di addivenire a una “medicina una” diventa vacua se le controparti continuano a utilizzare una base concettuale differente. Rimanendo nel campo della diatriba fra medicina omeopatica e allopatica, è fin troppo evidente che lo stesso linguaggio utilizzato dai professionisti del settore presenta incongruenze non conciliabili. E questo non può essere altrimenti se da una parte nella sua accezione più restrittiva si è scelto volontariamente una concezione autolimitante della scelta terapeutica, (ignorando quanto asserito da Whitehead “una medicina che esita a dimenticare i suoi fondatori è perduta”) e dall’altra si continua a ignorare il concetto di guarigione, rimandando la terapia a un processo di sostituzione o accomodatura di un pezzo dell’organismo macchina. Se così inteso, il concetto di sviluppo di medicina complementare o medicina integrata passa necessariamente attraverso la convivenza di comunità mediche isolate autotollerantesi e non in grado di comunicare dal momento che parlano linguaggi differenti. Pertanto, se questa concezione viene avallata dalle associazioni professionali e dall’istituzione, il medico esperto in medicine complementari deve prepararsi ad essere bilingue.
Il modello culturale proposto nell’ultimo anno dagli eventi organizzati dalla SIOMI (“Challenging the dose-response dogma” e “Advanced SIOMI Training Course”) ha il grande pregio di rimuovere questa difficoltà. Tale modello si fonda sull’ evidenza sperimentale della natura ambivalente della risposta dell’organismo al farmaco (inibente ad alte dosi, stimolante a basse dosi). L’effetto sia di stimolazione che di inibizione, che si osserva in funzione della entità della perturbazione che del tempo, permette di sviluppare i fondamenti di una nuova medicina finalmente davvero “una”. I pregi di questo modello sono riassumibili in una definizione più appropriata delle controparti organismo e xenobiotico (farmaco), apre le porte alla ricerca sia di base che clinica dei farmaci in bassa diluizione e rimuove definitivamente la doppia cultura del medico esperto anche in medicine complementari. Da non medico ritengo altresì che comporti una grande rivalutazione della professione medica, dal momento che il professionista viene chiamato a intervenire usando un solo paradigma. Auspico che tutta la comunità interessata allo sviluppo delle medicine complementari voglia adoprarsi a supportare questo modello culturale.
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