L’omeopatia e la Medicina Integrata

di Francesco Macrì, su HIMed di novembre 2011

La Medicina Integrata, comunque venga interpretata o impostata, si basa innegabilmente su una rilettura del rapporto tra il medico e il paziente. In una visione riduttiva essa viene esercitata attraverso la messa a disposizione del paziente di una serie di risorse terapeutiche di medicina ortodossa e di medicine complementari dovute alla cooperazione di più figure mediche con diversa pertinenza oppure applicate dallo stesso medico dotato di adeguata competenza in più discipline (Medicina Integrativa).

In una visione più elaborata è necessario superare tali dinamiche di confronto tra discipline, finalizzando l’accostamento delle diverse tecniche terapeutiche alla possibilità di recuperare le risorse personali e reattive del paziente e attivarle per il raggiungimento dello stato di salute. In questo concetto sta la principale differenza tra il modello terapeutico vigente tipico della medicina ortodossa e il modello terapeutico che l’integrazione intende proporre dando vita alla Nuova Medicina o Medicina Basata sulla Persona.
Questa interpretazione consente anche di superare una serie di tematiche che rischiano di rallentare il processo di integrazione. Tali tematiche sono insite nello stesso rapporto tra medico e paziente che si intende modificare e derivano da come i protagonisti (medico, paziente) sono stati abituati, o costretti, a vivere tale rapporto. I dati ci dicono che sono diversi gli scopi per i quali, a seconda dei casi, i pazienti si rivolgono alle CAM (dati australiani):

  • rendere più facile l’uso della medicina ortodossa;
  • supportare l’uso prolungato della medicina ortodossa;
  • ridurre le occasioni per il ricorso alla medicina ortodossa;
  • evitare l’uso della medicina ortodossa;
  • rimpiazzare l’uso della medicina ortodossa;
  • avere il massimo dei risultati utilizzando entrambe le medicine.

Ci sono tre possibili stili nel rapporto tra medici in Medicina Integrata. Il primo, auspicabile, è un rapporto paritario tra il medico di medicina ortodossa e il medico di medicina complementare, il secondo vede il medico di medicina ortodossa come deputato a dare le direttive generali, il terzo basato sulla collaborazione solo per gli aspetti marginali della patologia [1].
D’altronde i medici si avvicinano all’integrazione con difficoltà, soprattutto impreparati a gestire un rapporto di collaborazione con altri specialisti, prevalendo di volta in volta la diffidenza verso modelli di terapia poco conosciuti, la disabitudine a condividere il paziente, la tendenza a non accettare di mettere in discussione il proprio modello terapeutico o diagnostico. Mentre, nel caso del coinvolgimento di più figure mediche, si presume la necessità di una collaborazione attiva tra esse, ma i dati non sono incoraggianti: in Canada un report effettuato valutando i comportamenti dei medici di medicina generale e di medicina complementare affiancati nei settings di Medicina Integrata, rileva che i primi tendono a dominare sul paziente, a circoscrivere il ruolo dei colleghi e a usare un linguaggio eccessivamente scientifico, mentre i secondi hanno un atteggiamento più collaborativo, cercando di interpretare le proprie conoscenze “esoteriche” sulla base dei principi scientifici, di far proprio il linguaggio scientifico e di migliorare la propria preparazione professionale [2].

Tali situazioni rischiano di divenire a tal punto il principale motivo di dibattito interno per il medico da allontanarlo ancora di più, paradossalmente, dall’interesse nei confronti del paziente che dovrebbe rappresentare lo scopo primario del processo di integrazione.
Il concetto che la Medicina Integrata deve raggiungere gli scopi che si propone affiancando, se necessario, varie tecniche terapeutiche convenzionali e non, con l’intento di attivare le risorse individuali del paziente per il recupero dello stato di salute, rappresenta un ulteriore passo avanti. Questo passo va compiuto senza rimuovere i concetti alla base del processo di integrazione, che restano comunque sostanziali, comprendendo però che soltanto in questo modo sarà possibile dare una risposta unica alle diverse aspettative che il paziente esprime e consentire una maggior armonia tra i diversi possibili approcci terapeutici.

In che modo l’omeopatia affronta il problema?

Affermato il principio che lo scopo primario della integrazione tra medicine è quello di stimolare le capacità reattive dell’organismo fisiologicamente orientato al recupero dello stato di salute, ne deriva che un passaggio obbligatorio è conoscere il paziente sia nei suoi comportamenti generali, in condizioni fisiologiche, sia in fase di malattia, analizzando in modo dettagliato le manifestazioni patologiche e l’andamento dei sintomi. Per quanto attiene al primo aspetto niente di più moderno dello studio delle caratteristiche biotipologiche che in omeopatia viene effettuato. La valutazione complessiva degli aspetti morfologici e funzionali preconizza gli studi della genetica clinica e l’approfondimento sul genoma individuale, arrivando a formulare le ipotesi sulla predisposizione patologica insite nella definizione del miasma o modello reattivo. Il soggetto classificato in base alle sue caratteristiche morfofunzionali esprimerà stati patologici con le stesse caratteristiche o comunque con caratteristiche dallo stesso significato. Il medico quindi, conoscendo a fondo le caratteristiche del paziente che ha di fronte, è in grado di prevedere le manifestazioni patologiche cui potrà andare incontro e il tipo di evoluzione delle singole situazioni cliniche, ma soprattutto conosce di quel paziente il livello della reattività individuale, legato alle caratteristiche del suo modello reattivo. In questa ottica, ancora più interessanti, nel momento in cui la efficacia dell’omeopatia viene, come spesso accade, ascritta ad un effetto placebo, i dati recentemente a disposizione in base ai quali anche l’effetto placebo è legato a caratteristiche genetiche dell’individuo che lo manifesta, per una espressione anomala di un enzima coinvolto nel metabolismo della serotonina. In riferimento al secondo aspetto, il paziente in fase di malattia, risulta particolarmente utile la modalità di approccio al paziente tipica delle medicine complementari in generale, e dell’omeopatia in particolare, basata sulla raccolta del racconto spontaneo (medicina narrativa): il modo in cui il paziente descrive i sintomi della propria malattia esprime il suo atteggiamento mentale di fronte allo stesso concetto di terapia e di guarigione.

Un esempio è dato dall’esame del modello esogeno e del modello endogeno di interpretazione della malattia; nel primo (mi è venuta l’influenza) la malattia viene attribuita a fattori negativi esterni all’organismo, nel secondo (mi sono preso l’influenza) la malattia viene attribuita ad un “errore” dell’organismo stesso, orbene è constatato che coloro che condividono il modello endogeno rispondono di meno alle terapie, nella convinzione che come la malattia anche la guarigione è un evento legato alla funzione dell’organismo più che ad interventi terapeutici dall’esterno. Non dimentichiamo inoltre che una certa quota dell’effetto terapeutico in un setting clinico è legata al comportamento del medico nei confronti del paziente e può costituire fino al 10% dell’effetto totale (Effetto Howtorn).

Un buon contatto tra medico e paziente porta inoltre ad una esaustiva comprensione del sintomo, ed è importante sottolineare che l’omeopatia attua, nella sua accezione più diffusa, essenzialmente una diagnosi di sintomo più che una diagnosi di malattia; la patologia in atto viene inquadrata dal punto di vista diagnostico per stabilire le reali possibiltà terapeutiche, momento ancora più essenziale ai fini della pratica di Medicina Integrata, ma l’intervento terapeutico in senso stretto non è legato a questa fase diagnostica se non per agevolare la scelta dei farmaci da utilizzare, orientando la valutazione su quelli più tipici per la patologia in atto. Quindi una diagnosi di sintomo, un atteggiamento che porta all’approfondimento sul sintomo valutato in tutti i suoi aspetti di estrinsecazione fenomenologica e repertoriale; il sintomo non deve essere quindi bloccato, atteggiamento comune nella medicina ortodossa, ma seguito nella sua evoluzione, in una funzione sostenuta già da Ippocrate e vissuta nella sua espressione più pragmatica dallo sciamanesimo. L’approccio convenzionale è dedicato alla soppressione del sintomo, la stessa malattia, in fase acuta o cronica, ha bisogno di una prescrizione multipla, un farmaco per ogni sintomo presente, con risultati spesso positivi, a volte insoddisfacenti, raramente risolutivi, soprattutto nel caso di patologie ad andamento cronico. I farmaci omeopatici a disposizione derivano da studi di sperimentazione patogenetica, nei quali vengono somministrate sostanze (animali, vegetali, minerali) ad individui volontari sani, i sintomi che i soggetti sviluppano a seguita della somministrazione di tali sostanze costuiscono la patogenesi delle sostanze somministrate, che viene stabilita quando si raggiunge un numero significativo di sperimentazioni e si è in grado di stabilire quali sono i sintomi più spesso rilevati. Le stesse sostanze, che ora chiameremo farmaci, sono in grado di curare quegli stessi sintomi che hanno provocato nel soggetto sano se somministrate in dosi diluite in soggetti malati che li presentano (principio della similitudine).

E’ possibile affermare che l’effetto terapeutico è legato alla capacità di stimolare le risorse interne dell’organismo per un processo di recupero dell’equilibrio biologico (omeostasi). L’applicazione clinica che porta alla scelta del farmaco si basa su interpretazioni dottrinali diverse a seconda della impostazione personale del medico che può seguire un modello repertoriale, oppure basato sullo studio costituzionale, oppure sulla valutazione del modello reattivo o del tipo sensibile.

In linea teorica, qualunque sia il tipo di approccio, la decisione terapeutica dovrebbe portare alla stessa prescrizione, ma è proprio la rilevanza del sintomo valutato nella sua integrità che può portare a differenze prescrittive che risentono della diversa attenzione che il medico può porre nei confronti della manifestazione sintomatologica, differenza che però non comporta inconvenienti reali, grazie alla rivalutazione del sintomo modificato con la prima prescrizione.

Quindi il farmaco omeopatico contiene in sé le caratterisrtiche e i sintomi della malattia che con esso si intende curare, dal momento che è in grado di suscitare quegli stessi sintomi nel soggetto sano; quindi, in un modello forse non lontano dalla realtà, il soggetto-paziente reagisce alla causa perturbante che ha provocato la sua malattia con le risorse che il suo organismo ha a disposizione, che in una fase ottimale di espressione biologica saranno in grado di far recuperare all’organismo lo stato di salute, o comunque la situazione precedente all’evento perturbante, mentre in una situazione di carenza reattiva non riusciranno ad evitare che la manifestazione patologica si affermi stabilmente.

Il farmaco omeopatico in realtà ripropone al paziente la situazione clinica, in un’altra versione, se vogliamo artificiale, non legata all’azione lesiva in senso stretto ma alla simulazione che è in grado di effettuare, ripetendo la prassi attuata in occasione della sperimentazione patogenetica, in tal caso con diluizioni spinte della sostanza, offrendo in pratica al soggetto una seconda chanche biologica di reazione. Ci troviamo quindi di fronte a due varianti rispetto alla sperimentazione patogenetica: soggetto malato e non soggetto sano, diluizioni spinte e non dosi ponderali. Possono queste due varianti dar ragione dell’effetto terapeutico?

Per rispondere a questa domanda possiamo far riferimento in prima istanza alla teoria ormetica, avviata nell’ultima parte del secolo scorso da Townsed3 e poi ripresa e sviluppata in grande misura da Calabrese,4 che porta ad affermare che le sostanze hanno effetti opposti a seconda della dose in cui vengono utilizzate, inibendo ad alte concentrazioni, stimolando a basse concentrazioni. Tale teoria, confermata da dati sperimentali, ha però il limite di fissare un range di concentrazioni efficaci nel senso opposto, nel quale non rientrano le dosi infinitesimali. Abbiamo in pratica un modello che spiega l’effetto opposto delle sostanze, legato però alle regole della chimica applicata. Un passo ulteriore è rappresentato dalla studio della teoria dei sistemi complessi.

Il sistema complesso è dovuto alla interazione funzionale tra gli elementi costitutivi del sistema, nel nostro caso l’organismo ma, in accezione più allargata il concetto è applicabile ad ogni entità funzionalmente attiva anche non biologica, detti nodi. Ogni nodo ha diverse configurazioni di attività possibili, ne deriva che le combinazioni funzionali delle struttura sono innumerevoli e da ciò ne consegue la imprevedibilità, la impredicibilità, la non linearità, la irriversibilità del comportamento del sistema di fronte ad uno stimolo esterno, che nel caso dell’organismo umano può essere di tipo emotivo, tossico, infettivo, etc.

Un’azione perturbante può avere ovviamente, a seconda dei casi, effetti negativi ma anche positivi sulla struttura, sulla base del momento funzionale che caratterizza la struttura quando è sottoposta all’azione stessa. D’altronde la stabilità della struttura è variabile nelle differenti fasi di attivazione, e, in alcune di esse, l’effetto di spinta dinamica alla funzione di recupero dello stato di equilibrio può essere ottenuto con stimoli di bassissima intensità, quali quelli dovuti a dosi infinitesimali di sostanza.
Queste ipotesi, al di là della loro reale applicabilità, segnalano comunque come soltanto le medicine complementari, l’omeopatia in particolare, posseggono una struttura dottrinale in grado di dar conto della possibilità di raggiungere effetti terapeutici contando, in misura variabile a seconda dei casi, sulle capacità fisiologiche e spontanee dell ‘organismo a reagire nelle fasi di malattia, interpretata come perdita dell’equilibrio omeostatico. Si tratta quindi anche di riformulare le dinamiche tra medicina convenzionale e medicine complementari all’interno del progetto di Medicina Integrata, che finora tendeva ad attribuire alle medicine complementari una sorta di ruolo ancillare: una definizione comparsa pochi anni fa su BMJ indicava che “la Medicina Integrata consiste nel praticare una medicina che selettivamente ingloba elementi di medicina complementare ed alternativa in un piano terapeutico complessivo, a fianco di solidi e ortodossi metodi di diagnosi e terapia”5, quasi ad affermare formalmente il modello di rapporti tra medico convenzionale e medico di medicina complementare, che spontaneamente, come abbiamo già indicato, tende a svilupparsi,configurando spesso, per una distorsione delle dinamiche di collaborazione tra le diverse figure di specialisti, una leadership da parte del medico convenzionale.

Non si tratta di effettuare un confronto tra il livello di efficacia della medicina convenzionale e quello della medicina complementare, che vedrebbe prevalere la prima, che può sfruttare i risultati derivanti dalla enorme attività di ricerca che nel suo ambito viene svolta, ma di stabilire delle strategie di intervento terapeutico che necessariamente devono basarsi sul principio di equipollenza, in quanto gli apporti saranno basati sul modello della reciprocità. La medicina convenzionale è in grado di affrontare in modo più efficace le fasi di riacutizzazione dei sintomi, soprattutto se caratterizzate da elementi di emergenza, mentre nei quadri ad andamento cronico il suo apporto è fondamentalmente in grado di garantire il controllo della malattia: non è facile individuare un quadro di malattia ad andamento cronico in cui la medicina convenzionale riesce ad ottenere risultati al di là del buon controllo dei sintomi. L’omeopatia, nel caso di malattie croniche, si propone invece di conseguire la risoluzione del quadro clinico in modo definitivo, considerando un risultato intermedio la possibilità di interrompere la terapia convenzionale. E’ proprio questa complementarietà di risultati che rende perfettamente integrabili i due sistemi terapeutici.

Bibliografia

  1. Grace S, Higgs J J Altern Complement Med (2010) 16: 1185-1190.
  2. Hollemberg D Social Science and Medicine (2000) 62: 731-744.
  3. Townsed JF JAMA (1960) 173: 128-132.
  4. Calabrese EJ Crit Rev Toxicol (2008) 30:579-591.
  5. Rees L, Weil A BMJ (2001); 322: 119-120.

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