L’insostenibile peso di scegliere

di Alfredo Zuppiroli, su “Salute Internazionale” del 6 maggio 2020 – LINK

Pensare che “non scegliere” sia meglio, perché così non si rischia di giudicare quale vita sia più degna di altre di continuare ad essere vissuta, è una profonda illusione.

In una fase in cui l’ondata epidemica di Covid-19 si sta attenuando possiamo tornare su un tema, quello delle scelte allocative, senza il carico emotivo imposto dallo scenario emergenziale delle settimane appena trascorse. In proposito, non si può non partire dal documento SIAARTI del 6 marzo 2020 [1]. Un testo coraggioso, dove appare evidente la consapevolezza dell’eccezionalità del momento, con la necessità di esplicitare pubblicamente modi e tempi del ragionamento etico, clinico e organizzativo per arrivare a scelte il più possibile condivise, nell’ottica del miglior interesse per tutti ed evitare il criterio del first come, first served. La questione è semplice: o si argomenta pubblicamente sui criteri che devono guidare il singolo medico nella scelta o si lascia il tutto a quella zona grigia del “si fa ma non si dice”, dove nella migliore delle ipotesi sarà una coscienza cristallina e nella peggiore saranno interessi, amicizie, pregiudizi, ad orientarlo nella scelta.

Non hanno fatto altro, i colleghi della SIAARTI, che cercare di offrire un contributo alla preparedness, che secondo l’European Centre for Disease Prevention and Control “is essential in order to respond effectively to outbreaks and epidemics” [2]. Un termine della lingua inglese difficilmente traducibile nella lingua italiana dove il vocabolo “preparazione” non basta a renderne tutto un senso che comprende anche prevenzione, prontezza, disponibilità, pianificazione, predisposizione operativa, capacità d’intervento. E qui viene in mente un’altra parola, l’accountability, il cui significato comprende la responsabilità ma anche l’obbligo di rendere conto pubblicamente delle decisioni. Anch’essa – come fu argutamente ed amaramente notato da Indro Montanelli – senza un preciso corrispettivo nella nostra lingua.

Per il dovere di trasparenza nei confronti dei cittadini il medico non può trincerarsi dietro alla comoda formula della “scienza e coscienza”, un pilastro deontologico che ha retto per secoli ma che oggi più che mai cede di fronte al rischio di aprire all’autoreferenzialità. Giusto, dunque, il richiamo della SIAARTI a considerare insieme ai criteri di appropriatezza clinica quelli di giustizia distributiva. Fatto salvo il dovere di lavorare nell’ottica della preparedness al fine di assicurare risorse incrementabili, ci sarà sempre la possibilità di due pazienti in condizioni cliniche assolutamente sovrapponibili, con identici bisogni di uno specifico percorso di cura, purtroppo però limitato ad una sola disponibilità. Come decidere allora, ricordando l’origine di questo verbo dal latino decidere, tagliare via? Come operare il triage, ricordandone la derivazione dal verbo francese trier, smistare, quando con due individui che pongono la stessa domanda si può rispondere solo ad uno?

È una questione che da circa sessant’anni anima il dibattito bioetico in tema di allocazione di risorse, da quando cioè la rivista americana Life uscì con un articolo dedicato a quello che fu definito il “Comitato di Dio” (The God Committee) perché vi si “decideva chi potesse vivere e chi dovesse morire” [3]. Il comitato in questione era quello sorto a Seattle per decidere sull’allocazione delle prime apparecchiature per la dialisi. Non è questo il luogo per discutere nel merito i criteri che furono adottati, alcuni molto discutibili; il fatto è che allora, per la prima volta, qualcuno ebbe il coraggio di esplicitare pubblicamente tutti i passi necessari per arrivare ad una decisione che s’imponeva come inevitabile.

Leggendo tanti scomposti commenti seguiti in queste settimane al documento SIAARTI, dove abbiamo perfino trovato accuse di far morire per scelta deliberata i nostri nonni, non possiamo che invitare chiunque a rileggere con attenzione il documento stesso, quando ci spiega che “Può rendersi necessario porre un limite di età all’ingresso in Terapia Intensiva. Non si tratta di compiere scelte meramente di valore, ma di riservare risorse che potrebbero essere scarsissime a chi ha in primis più probabilità di sopravvivenza e secondariamente a chi può avere più anni di vita salvata, in un’ottica di massimizzazione dei benefici per il maggior numero di persone … È ipotizzabile che un decorso relativamente breve in persone sane diventi potenzialmente più lungo e quindi più “resource consuming” sul servizio sanitario nel caso di pazienti anziani, fragili o con comorbidità severa”. Sono le parole di “angeli della morte” o di colleghi che ben conoscono il travaglio di ogni singolo medico di fronte a “scelte tragiche” e perciò hanno sentito il bisogno di offrire un contributo pragmatico e non dogmatico sia alla discussione pubblica che alla prassi quotidiana?

Non dimentichiamo che nello stesso documento si legge che “per i pazienti per cui viene giudicato non appropriato l’accesso a un percorso intensivo, la decisione di porre una limitazione alle cure dovrebbe essere comunque motivata, comunicata e documentata”. Si torna ai concetti di preparedness ed accountability: nessuno si deve sentire esentato dal dovere di pianificare e di rendere espliciti i percorsi che hanno portato a scegliere ciò che si deve o non si deve offrire in termini di risorse di cura. E se in condizioni di improvvisa acuzie le decisioni operative possono anche aver lasciato in secondo piano valori, desideri, preferenze del paziente, in una situazione quale quella attuale, soprattutto quando ci si trovi di fronte ad una o più patologie croniche, è doveroso affiancare ai dati biomedici quelli biografici, perché ogni scelta di cura non è mai soltanto un fatto sanitario, ma anche esistenziale. E pensare che “non scegliere” sia meglio, perché così non si rischia di giudicare quale vita sia più degna di altre di continuare ad essere vissuta, è una profonda illusione, perché comunque anche questa è una scelta, seppur di tipo omissivo (scegliendo di non scegliere di fatto provoco l’impossibilità di salvare qualcuno con maggiori probabilità di successo terapeutico). La legge 219 del 2017, ancora largamente sconosciuta non solo alla maggioranza dei cittadini ma purtroppo anche a tanti operatori sanitari, contiene in sé tutti gli strumenti, dalle Disposizioni Anticipate di Trattamento (DAT) alla Pianificazione Condivisa delle Cure (PCC), per poter giungere a decisioni eticamente ammissibili.

Tutto ciò non deve sottacere la discussione su quella limitatezza di risorse che è la diretta conseguenza di una politica che nel nostro Paese da oltre un decennio ha sistematicamente definanziato la Sanità Pubblica. Non si tratta dunque soltanto d’interrogarci sui criteri di microallocazione delle risorse, quali appunto quelli che devono guidare il medico di fronte a due malati con uguali bisogni clinici ma con una sola risorsa a disposizione. Si tratta, soprattutto, di chiederci perché quella risorsa a disposizione è una sola e non sono due, quali sono stati i criteri di macroallocazione, quali sono stati gli impieghi alternativi delle risorse economiche e finanziarie (il riferimento, tra i tanti possibili, alle spese militari è in questo caso fermamente voluto).

In tema di scelte cliniche e risorse limitate il Comitato Nazionale per la Bioetica (CNB) ha recentemente riconosciuto “il criterio clinico come il più adeguato punto di riferimento” [4]. Se non si può non concordare con il CNB quando afferma che siano eticamente inaccettabili decisioni di selezione basate su criteri quali “il sesso, la condizione e il ruolo sociale, l’appartenenza etnica, la disabilità, la responsabilità rispetto a comportamenti che hanno indotto la patologia, i costi”, si può invece discutere sull’età. È, questo, certamente un criterio non clinico, ma non è necessario essere medici per comprendere come all’età si associno tante condizioni morbose che rendono la persona più fragile di fronte a qualunque noxa esterna. Si torna dunque alla domanda: dopo aver esperito ogni possibile valutazione di appropriatezza clinica quale altro criterio, se non appunto l’età, intesa nel senso più ampio di speranza di vita in buona salute, può e deve essere esplicitamente e documentatamente preso in considerazione di fronte a due pazienti cinicamente identici ma con la disponibilità di una sola risorsa di cura? Certo, ha ragione il CNB quando ci ricorda che “l’età, a sua volta, è un parametro che viene preso in considerazione in ragione della correlazione con la valutazione clinica attuale e prognostica, ma non è l’unico e nemmeno quello principale. La priorità andrebbe stabilita valutando, sulla base degli indicatori menzionati, i pazienti per cui ragionevolmente il trattamento può risultare maggiormente efficace, nel senso di garantire la maggiore possibilità di sopravvivenza. Non si deve cioè adottare un criterio, in base al quale la persona malata verrebbe esclusa perché appartenente a una categoria stabilita aprioristicamente”. Bene, infine, fa il CNB a sottolineare l’importanza delle preparedness ed a mettere in guardia dal fatto che “Decisioni importanti, che impattano pesantemente sulla vita e la morte delle persone, in comunità rese fragili da un’epidemia, non devono costituire precedenti da applicare in un futuro tornato alla normalità”. C’è una preparedness per i tempi eccezionali delle pandemie e ce n’è un’altra per la cosiddetta normalità: in ambedue i casi l’accountability è doverosa.

In conclusione, dobbiamo evitare di accettare come ineludibile una condizione di risorse limitate e lottare perché la politica sappia adottare strumenti di flessibilità organizzativa tali da costringere il meno possibile i clinici ad operare scelte tragiche. Intanto chi è obbligato a decidere, cioè a tagliare qualcosa in favore di qualcos’altro, può aiutarsi con le parole di Don Milani, che ci ricorda che “non c’è nulla che sia ingiusto quanto far parti uguali fra disuguali” [5]. L’auspicio è che, se un risvolto positivo questa epidemia potrà avere, sia quello di ridare forza e valore alla gestione pubblica di un bene comune quale la salute. Ricordiamoci il detto dei classici latini, Valeo si vales, solo se sta bene l’altro da me posso stare bene anch’io. Da una piazza San Pietro emblematicamente vuota di folla ma piena di significato simbolico Papa Francesco ci ha trasmesso parole di valore universale, al di là delle appartenenze confessionali o meno di ciascuno di noi [6]: “… ci siamo resi conto di trovarci sulla stessa barca, tutti fragili e disorientati, ma nello stesso tempo importanti e necessari, tutti chiamati a remare insieme, tutti bisognosi di confortarci a vicenda. Su questa barca ci siamo tutti… anche noi ci siamo accorti che non possiamo andare avanti ciascuno per conto suo, ma solo insieme”.

E questo “insieme” non può che fondarsi su preparedness ed accountability: l’obiettivo è quello di farci trovare pronti a dare in modo trasparente e a tutti le giuste risposte ai bisogni di salute.

Bibliografia

  1. Raccomandazioni di etica clinica per l’ammissione a trattamenti intensivi e per la loro sospensione, in condizioni eccezionali di squilibrio tra necessità e risorse disponibili. Covid-19. SIAARTI, 06.03.2020
  2. ECDC: Preparedness for COVID-19
  3. Alexander S. They decide who lives, who dies: medical miracle puts a burden on a small committee. Life 1962; 9: 102-25.
  4. Covid 19: la decisione clinica in condizioni di carenza di risorse e il criterio del “triage in emergenza pandemica”. Comitato Nazionale per la Bioetica, 08.04.2020
  5. Scuola di Barbiana. Lettera a una professoressa. Firenze: Libreria Editrice Fiorentina,  1967.
  6. Momento straordinario di preghiera in tempo di epidemia, presieduto dal Santo Padre Francesco. Sagrato della Basilica di San Pietro, Venerdì, 27 marzo 2020

2 Commenti

  1. Si possono considerare tre problemi di fondo: il primo è a monte del problema, cioè perchè e cosa ha causato questa condizione di dover scegliere. Quindi tutto il problema relativo al finanziamento del SSN. Sembra che nel nostro paese la distruzione della sanità pubblica sia una costante negli ultimi trenta anni. Sanità che da USL ad ASL porta necessariamente a considerare la malattia e la cura come una risorsa economica per fare soldi e non per curare le persone. Tralascio le altre allocazioni delle risorse che sarebbe troppo lungo e politico affrontare.
    Un secondo problema a mio giudizio è se si può sempre dire che un giovane trentenne sia in migliori condizioni di salute rispetto ad un 70 o 80 enne. Forse si dovrebbe considerare che un trentenne magari ce la farebbe da solo mentre l’ottantenne no, quindi intervenendo sull’anziano si potrebbero salvare entrambi mentre intervenendo sul giovane sicuro che l’anziano non ce la fa. Questione di rischio? Forse.
    Il terzo ed ultimo problema od osservazione riguarda sempre un problema di politica etica: se un giovane è nero ed homeless sconosciuto, mentre l’anziano è un senatore , un politico molto conosciuto è sicuro che si salverebbe il giovane nero senza dimora? Avrei i miei dubbi. Quindi la mia conclusione che forse è la stessa proposta nel testo, anche senza introdurre il pensiero del papa, dobbiamo solo creare le condizioni che questo non succeda, o almeno possa essere estremamente raro, perchè tutti vanno salvati e curati. Basta essere seri e non avere una mentalità nazista, economicista ma solamente umana.

  2. L’errore più grande commesso negli anni passati è stao proprio quello di limitare sempre di più le risorse necessarie al SSN senza prevedere le conseguenze di questa “spoliazione” progressiva. Le ASL che diventano aziende prevedono una gestione in teoria più efficente, ma in pratica poi hanno sofferto degli stessi problemi di tutta la Pubblica Amministrazione: nomine apicali solo politiche e con scarso peso meritocratico e nessun controllo sulla qualità. A questo si aggiunga poi il mancato ricambio degli operatori sanitari. Quando ero in corsia le guardie le dividevamo il 11: oggi i colleghi del mio ex reparto sono rimasti in 4!

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