Da “Il Post” del 23 maggio 2020 – LINK
La pandemia di COVID-19 ha confermato fin qui due cose che gli attivisti ambientalisti dicono da molto tempo. La prima è che per diminuire significativamente la concentrazione di gas serra nell’atmosfera, come richiederebbero gli obiettivi internazionali fissati per contrastare il riscaldamento globale, servono interventi molto più radicali di quelli portati avanti finora sulla spinta delle conferenze come la Cop21 di Parigi. La seconda è che gli sforzi individuali per ridurre l’impatto delle attività umane sull’atmosfera, per quanto lodevoli, servono a poco.
L’effetto della pandemia sulle emissioni di CO2
Già a febbraio si era cominciato a parlare dell’effetto delle restrizioni agli spostamenti e alle attività produttive per contenere i contagi da coronavirus (SARS-CoV-2) sull’inquinamento atmosferico. Si è visto prima con le fabbriche cinesi, che hanno interrotto o rallentato la produzione, poi con le automobili private in Europa e negli Stati Uniti, che sono rimaste parcheggiate per settimane, e con i voli cancellati in tutto il mondo.
Il 19 maggio sulla rivista scientifica Nature Climate Change è stato pubblicato il primo studio sugli effetti della pandemia sulle emissioni di anidride carbonica (CO2), il principale gas responsabile dell’effetto serra e del riscaldamento climatico. Lo studio, realizzato da 13 noti esperti di scienza ambientale di diverse parti del mondo, stima quanto si sia effettivamente ridotta la quantità di emissioni di CO2 dall’inizio dell’anno alla fine di aprile: di più di un miliardo di tonnellate rispetto all’anno scorso. Nel periodo compreso tra il primo gennaio e il 30 aprile, il 7 aprile è stato il giorno in cui si è emessa meno anidride carbonica rispetto allo stesso giorno del 2019: il calo giornaliero mondiale è arrivato al 17 per cento. Da fine marzo a fine aprile il calo è sempre stato superiore al 15 per cento rispetto all’anno scorso.
Le riduzioni ovviamente sono diverse da paese a paese e da settore a settore. Al suo picco massimo, per esempio, la riduzione di emissioni dovuta alle chiusure in Cina è stata maggiore rispetto al picco massimo di quella dovuta alle chiusure negli Stati Uniti. In media nei momenti di maggiore chiusura i singoli paesi hanno ottenuto una riduzione delle proprie emissioni del 26 per cento.
Per quanto riguarda i diversi settori che producono emissioni di anidride carbonica, un calo percentuale molto alto (meno 36 per cento rispetto al 2019) c’è stato nel settore dei trasporti di superficie: relativo soprattutto nell’uso delle automobili, dato che il trasporto di merci su gomma è continuato. L’aviazione civile ha prodotto invece il 60 per cento di emissioni in meno, essendosi fermata in gran parte: i voli aerei però contribuiscono solo a una piccola frazione del totale delle emissioni dovute ai trasporti – solo al 9 per cento nel caso degli Stati Uniti – dunque a questo grosso calo percentuale non corrisponde una diminuzione davvero significativa nelle emissioni totali globali.
Complessivamente la diminuzione delle emissioni ci ha fatto tornare a livelli di emissioni giornaliere globali visti l’ultima volta nel 2006: l’impatto delle restrizioni dovute alla pandemia sulla produzione di emissioni è stato quindi maggiore di quello dovuto alla crisi economica del 2008-2009.
Secondo gli esperti, però, è improbabile che questo effetto continui anche nei prossimi mesi, anzi: le iniziative dei governi per il rilancio dell’economia dovrebbero portare a una crescita molto forte nella produzione di emissioni. Lo studio pubblicato su Nature Climate Change prevede che nel 2020 le emissioni totali globali saranno solo minori del 4-7 per cento rispetto a quelle prodotte nel 2019. Considerando che negli scorsi decenni l’emissione annuale globale di anidride carbonica è quasi sempre aumentata (tra il 2008 e il 2009 diminuì dell’1,4 per cento) non è detto che questa diminuzione abbia un effetto davvero rilevante e conti qualcosa a lungo termine nel contrasto al cambiamento climatico.
Quella che conta è la concentrazione di CO2
Sebbene i grafici e i dati sul calo di emissioni negli ultimi mesi siano notevoli e impressionanti, infatti, è importante ricordare che il principale parametro da considerare quando si parla di emissioni di CO2 e cambiamento climatico è la concentrazione di questo gas serra nell’atmosfera. È dall’inizio della Rivoluzione Industriale, nel Settecento, che le attività umane causano un aumento di anidride carbonica nell’atmosfera, in aggiunta a quella dovuta ai processi naturali: qualche mese senza automobili, aerei e centrali elettriche alimentate a carbone non può stravolgere quanto fatto in più di due secoli.
Si capisce bene guardando la cosiddetta “curva di Keeling”, un grafico che mostra l’andamento della concentrazione di CO2 nell’atmosfera dal 1958 a oggi, secondo le misurazioni dell’osservatorio meteorologico del vulcano Mauna Loa, alle Hawaii. Nel grafico si vedono due linee. Quella in rosso nell’immagine che segue mostra il livello di concentrazione di anidride carbonica nell’atmosfera misurato all’osservatorio di Mauna Loa nel tempo. Sale e scende a seconda delle stagioni, dato che durante l’estate le piante dell’emisfero boreale assorbono più CO2 di quanta riescano ad assorbirne le piante dell’emisfero australe (che sono meno) d’inverno. La linea nera invece è l’andamento medio, che appiattisce le crescite e i cali stagionali.
Molti hanno chiesto all’osservatorio di Mauna Loa se nelle loro misurazioni si sia visto l’effetto della pandemia di COVID-19 sulle emissioni. L’osservatorio ha spiegato:
Perché il calo nelle emissioni sia visibile deve essere abbastanza pronunciato da distinguersi rispetto alla naturale variabilità della CO2 nell’atmosfera causata da come le piante e il suolo reagiscono alle annuali variazioni di temperatura, umidità, etc. Queste variazioni sono molto ampie e per ora le emissioni “mancanti” non si notano. Ecco un esempio: se le emissioni fossero minori del 25 per cento, ci aspetteremmo di vedere la media mensile di CO2 misurata a marzo a Mauna Loa minore di 0,2 parti per milione, e di nuovo lo stesso ad aprile, etc. Quindi nel confronto delle medie annuali ci aspetteremmo una differenza visibile dopo una serie di mesi, ciascuno con 0,2 parti per milione in meno.
L’Agenzia internazionale dell’energia si aspetta che quest’anno le emissioni calino dell’8 per cento. Non possiamo quindi vedere un effetto globale come questo in un periodo minore di un anno. La CO2 nell’atmosfera continuerà a crescere più o meno alla stessa velocità, cosa che dimostra che per contrastare l’emergenza del riscaldamento climatico servono investimenti aggressivi nel campo delle fonti di energia alternative.
Insomma, i dati sulla concentrazione non mostrano cambiamenti: le emissioni dovrebbero diminuire molto di più di quanto hanno fatto finora perché l’effetto del loro calo fosse visibile nei grafici relativi. Al contrario, ad aprile del 2020 la concentrazione media di anidride carbonica nell’atmosfera è stata di 416,21 parti per milione, la più alta mai registrata dal 1958. I dati sulla concentrazione di CO2 che gli scienziati hanno ottenuto studiando i ghiacci antartici – l’unica fonte che abbiamo per sapere com’era il clima terrestre centinaia di migliaia di anni fa – inoltre dicono che è da almeno 800mila anni che non c’è così tanta anidride carbonica nell’atmosfera. La nostra specie, Homo sapiens, esiste da circa 300mila anni.
Secondo un rapporto delle Nazioni Unite pubblicato a novembre, per scongiurare i peggiori effetti del cambiamento climatico le emissioni di anidride carbonica dovrebbero diminuire di almeno il 7,6 per cento ogni anno per decenni. Quindi le emissioni “mancanti” di quest’anno non avranno alcun effetto a lungo termine se nei prossimi anni non ci saranno cali simili.
Le scelte individuali contano poco
I settori in cui si è visto il maggior calo nella produzione di emissioni di CO2 sono quelli di cui si parla quando si parla di scelte individuali, per diminuire l’impatto delle attività umane sul clima: i trasporti in automobile e i voli aerei. Il fatto che nonostante la loro grande diminuzione, anche nel momento di massime restrizioni mondiali, avvenuto all’inizio di aprile, il mondo abbia continuato a produrre più dell’80 per cento delle sue solite emissioni di anidride carbonica, mostra chiaramente che per contrastare il cambiamento non bisogna chiedere ai singoli di cambiare le proprie abitudini, ma portare avanti cambiamenti più radicali nel modo in cui si produce l’energia.
«Cambiare il nostro comportamento e basta non è sufficiente, ora lo vediamo» ha detto al Washington Post Corinne Le Quéré, prima autrice dello studio pubblicato su Nature Climate Change. Le Quéré ha spiegato che si sarebbe aspettata riduzioni nella produzione di emissioni ancora maggiori, legate alla chiusura delle industrie e alla conseguente minor produzione di energia elettrica: invece, certi settori hanno continuato a funzionare come al solito e a consumare energia «come se avessero il pilota automatico», nonostante molte persone lavorassero da casa. Le emissioni prodotte dalle industrie sono diminuite del 19 per cento rispetto al 2019, quelle dovute al settore energetico solo del 7 per cento.
Zeke Hausfather del Breakthrough Institute, un centro studi americano che si occupa di temi ambientali, ha commentato i risultati dello studio dicendo: «A meno che non arrivino cambiamenti strutturali, dobbiamo aspettarci che le emissioni tornino ai livelli precedenti alla pandemia. Non penso che ci sia un lato positivo della COVID-19 per quanto riguarda il clima, a meno che non sfruttiamo la ripresa delle attività come un’occasione per costruire infrastrutture adatte a sostenere un futuro a energia pulita, oltre che come un momento per stimolare l’economia».
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