I limiti della politica

Aula della Camera durante la votazione finale del disegno di legge sulle riforme Costituzionali. Roma 11 Gennaio 2016. ANSA/GIUSEPPE LAMI

di Francesco Grillo, da “Il Messaggero” del 17 agosto 2020 – LINK

Può un Paese sopravvivere senza una élite? Senza una vera classe dirigente capace di interpretarne i bisogni e concepire una strategia nella quale riconoscersi? La domanda è essenziale per una società che da vent’anni sembra vagare senza un’idea precisa su quale possa essere il proprio ruolo nel ventunesimo secolo. E nella quale si è – da tempo – lacerato un patto tra governanti e governati che nessuno sa più davvero come ricucire.

Nell’Ottocento, fu l’economista italiano Vilfredo Pareto a proporre la più compiuta teoria delle élite articolandola in tre punti fondamentali: il primo è che ogni società tende ad essere guidata da un’avanguardia (per i rivoluzionari francesi, furono gli illuministi; per quelli sovietici, lo erano i vertici del partito); il secondo è che una classe dirigente è tale se il popolo le riconosce una superiorità (prima di tutto intellettuale) che diventa rilevante per risolvere problemi che interessano un numero sufficientemente ampio di persone; il terzo che la «storia è, in realtà, un cimitero di élite»: esse perdono, nel tempo, il proprio valore e vengono sostituite da nuove classi dirigenti.

Tra messaggi di cordoglio per i “libici” che abiterebbero in Libano (!) e bonus da 600 euro richiesti dai commercialisti dei parlamentari (!!), l’Italia del 2020 sembra sospesa in un punto critico della sua storia.

Il punto critico è quello nel quale l’establishment che l’ha governata per vent’anni ha perso legittimità; l’anti establishment che ha sostituito il precedente non è riuscito a proporre alcuna alternativa; e noi dobbiamo allora porci – oggi e con urgenza – tre domande che sono decisive.

Dove può nascere una classe dirigente in un Paese che complessivamente sembra aver perso capacità di pensare? In che maniera la mutazione tecnologica che stiamo vivendo ne cambia le caratteristiche (rendendo obsoleti, persino, i concetti di “esperienza” e specializzazione”)? Quali meccanismi concreti ne possano favorirne l’emersione nell’amministrazione e nella politica?

Innanzitutto, mi sembra di poter dire che non sia più sufficiente proporre come soluzione di istituire in Italia super scuole di formazione dell’alta amministrazione dello Stato (il modello Ena francese) o di affidare il compito alle Business schools più prestigiose. I templi nei quali generazioni di dirigenti di Paesi forti si sono formate non sono più sufficienti perché non lo sono più gli strumenti cognitivi che abbiamo usato per decenni: lo dimostra la spocchiosa delusione di molti miei colleghi ad Oxford rispetto agli orientamenti di un’opinione pubblica che aveva deciso di uscire dall’Unione Europea. Ma, soprattutto, appare, ormai, evidente che non si può immaginare di trapiantare una testa di qualità su una società che vive di un forte disinvestimento sulla conoscenza. Una nuova classe dirigente si comincia a formare tra i banchi della scuola che, in Italia, è rimasta chiusa per pandemia più che in qualsiasi altro Paese del mondo. Ed è l’università che ne completa la crescita: è necessario, però, ristrutturarne fortemente l’organizzazione che non può più essere solo per aree disciplinari, perché va riaggregata attorno ai grandi problemi che definiscono il tempo che viviamo (dal cambiamento climatico alla regolamentazione delle piattaforme digitali) e che attraversano competenze diverse.

In secondo luogo, è necessario finalmente convincersi che una amministrazione di valore si seleziona solo rifondandola sulla base di ciò che Weber avrebbe chiamato “etica della responsabilità”. Al di là dei titoli di studio conseguiti (che possono segnalare un’abitudine all’analisi), dell’onestà (che non basta), è indispensabile – come insegnano i Paesi che stanno vincendo la corsa ad un futuro gravido di promesse e rischi – assumere, premiare, confermare, allontanare chi si occupa di politiche decisive, sulla base dei risultati ottenuti.

È, insomma, la stessa logica del posto fisso e del “concorso pubblico” che non possiamo più permetterci in un momento nel quale la pandemia ci ha precipitato in un futuro nel quale ci sarà da reinventare il modo stesso in cui produciamo, consumiamo, stiamo insieme: è questione morale che tutti – compresi i tribunali e le agenzie fiscali – siano valutati sulla base della capacità di ridare fiducia ad un rapporto tra Stato e cittadini che non funziona più.

Infine, la politica e il Parlamento che è il luogo nel quale le élites trovano il proprio luogo di confronto più importante. Ritroveremo classi dirigenti solo se stabilizziamo le leggi che regolano le elezioni (che sono in una democrazia liberale il momento principale nel quale chi governa risponde dei risultati) e se diamo ai cittadini una più ricca possibilità di scegliere e di contribuire (rispondendo a quella che è l’aspettativa che viene alimentata da piattaforme che fanno di ciascuno l’editore della propria opinione).

È normale che i cittadini perdano fiducia nei parlamenti se per dodici lunghissimi anni questi ultimi sono stati eletti – per tre volte – usando regole ritenute non legittime dalla stessa Corte Costituzionale; e non è accettabile che le leggi elettorali stesse vengano rimesse regolarmente in discussione alla fine del campionato (legislatura) per provare ad evitare alla maggioranza uscente una sconfitta (che, pure, finora è sempre arrivata inesorabile).

Una classe dirigente della politica di livello accettabile si seleziona con collegi uninominali che pongano scelte chiare; dando rango costituzionale alle regole elettorali (e assicurando, dunque, che attorno ad esse ci sia un consenso ampio e duraturo da parte di tutti quelli che partecipano alla competizione); utilizzando le tecnologie per abbassare il costo della partecipazione (in Estonia hanno, da tempo, introdotto il voto elettronico trovando il modo di renderlo accessibile agli stessi anziani); promuovendo – con il servizio pubblico – un dibattito che ridiventi confronto su fatti rilevanti, su possibili soluzioni, sulle idee che ci servono per affrontare incertezze grandi.

Il problema più grosso è che, però, siamo come intrappolati in un paradosso: senza classe dirigente, non avremo la forza strategica per immaginare e costruire futuro; tuttavia, è solo in tempi medio-lunghi che questa pre-condizione può essere realizzata. È questa la contraddizione che ha bruciato molte delle stagioni politiche degli ultimi vent’anni: includendovi quella di chi avrebbe dovuto «rottamare D’Alema» fino all’illusione di chi voleva aprire il Parlamento come una «scatola di tonno» senza preoccuparsi, però, di avere la forza sufficiente per sostenere un cambiamento così impegnativo.

Abbiamo bisogno di più scuola, più responsabilità, regole che rendano più stabilmente efficienti i luoghi della democrazia; tuttavia, un progetto di questo genere non nasce se non c’è una leadership (che è un embrione di classe dirigente) che riesca a proporlo rinunciando a inseguire sondaggi e tattiche di brevissimo periodo. E una visione di futuro che distingua quella leadership – pragmatica e coraggiosa – dal piccolo cabotaggio di chi si accontenta di gestire un potere sempre più impotente. Ci vorrebbe un miracolo ad invertire un declino che è culturale, prima che economico. Quasi sempre, però, è proprio quando si arriva all’ultima crisi, che nascono prospettive nuove e nuove classi dirigenti.

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