di Esther Landhuis/Scientific American del 1° giugno 2020 – LINK
La pandemia da coronavirus ha fornito al mondo un rapido sguardo sulla complessità dell’immunologia. “Immunità di gregge” e “test sierologici” sono diventati termini familiari. Alla base di questi concetti ci sono gli anticorpi. Queste proteine immunitarie emergono tipicamente durante la seconda o terza settimana dopo un’infezione, legandosi agli invasori e impedendo loro di penetrare nelle cellule umane. Se gli anticorpi che prendono di mira un particolare virus compaiono in un campione di sangue, la loro presenza fornisce la conferma di una risposta immunitaria che può proteggere dalla reinfezione.
Far emergere gli anticorpi giusti per disarmare SARS-CoV-2, il virus responsabile dell’attuale pandemia, è l’obiettivo di decine di sviluppatori di vaccini, molti dei quali hanno già avviato trial su esseri umani a tempo di record. Ma gli esponenti della sanità pubblica e gli scienziati mettono in guardia dal muoversi troppo velocemente. In casi rari, questi sistemi di difesa immunitaria possono esacerbare la malattia piuttosto che difenderci da essa.
Nelle prime fasi di realizzazione del vaccino per COVID-19 questa possibilità non si è ancora verificata. Tuttavia, sulla base di ricerche relative a precedenti epidemie di coronavirus, i produttori di vaccini non considerano l’ostacolo come puramente teorico.
Tipicamente SARS-CoV-2 e il precedente coronavirus a esso imparentato SARS-CoV si fanno strada nelle cellule attraverso un sito di attracco: un recettore sulla superficie cellulare chiamato ACE2. I vaccini che forniscono la ricercata immunizzazione producono anticorpi “neutralizzanti” contro le proteine virali, bloccando l’ingresso del patogeno attraverso il portale ACE2.
Ma il solo fatto che un anticorpo possa impedire a un virus di entrare nelle cellule in un preparato da laboratorio non significa necessariamente che si comporterà nello stesso modo nell’organismo, dice Akiko Iwasaki, immunologa della Yale University. Negli scenari che descrive in un recente commento su “Nature Reviews Immunology”, gli anticorpi possono occasionalmente aiutare un virus a invadere e contrastare le cellule immunitarie che normalmente fagociterebbero l’agente patogeno, permettendo di eliminarlo. Se alcuni degli anticorpi prodotti non si legano abbastanza bene al virus – o non sono presenti nella giusta concentrazione – possono aggrapparsi a esso ed esacerbare la malattia tramite un processo noto come potenziamento dipendente da anticorpi (antibody-dependent enhancement, ADE). Nell’ADE, i virus rivestiti di anticorpi ottengono un ingresso “dalle porte sul retro” tramite i recettori anticorpali sui macrofagi e su altri membri della squadra di pulizia cellulare, neutralizzando le cellule stesse che avrebbero sminuzzato quei virus e l’avrebbero eliminato chimicamente. In alcuni casi, questo processo può innescare una risposta infiammatoria pericolosa.
In effetti, sembra che alcuni agenti patogeni, tra cui i coronavirus, abbiano “trovato un modo per usare l’anticorpo come cavallo di Troia per infettare le cellule che combattono le malattie”, dice Iwasaki. Il suo laboratorio sta lavorando per capire i tipi di risposte immunitarie che aiutano le persone a guarire da COVID-19 confrontandole con quelle che contribuiscono alla malattia. Tramite l’ADE, suggerisce Iwasaki, il virus può avviare una sovrapproduzione di proteine di segnalazione infiammatoria chiamate citochine, portando a “tempeste di citochine” che possono promuovere la sindrome da distress respiratorio acuto e danneggiare il tessuto polmonare. Problemi simili possono anche essere scatenati in pazienti COVID-19 da altre cellule immunitarie chiamate neutrofili.
Gli scienziati non sono ancora sicuri che l’ADE promuova effettivamente le tempeste di citochine o i danni ai tessuti legati alla risposta immunitaria a COVID-19. Stanno “unendo i puntini” sulla base di studi passati su vaccini sperimentali per precedenti focolai di sindrome respiratoria acuta grave (SARS) e sindrome respiratoria medio-orientale (MERS), in cui alcuni animali immunizzati hanno sviluppato una malattia più grave. Inoltre, precedenti lavori di Iwasaki e altri scienziati suggeriscono che gli agenti patogeni che entrano nelle cellule attraverso la porta sul retro vengono indirizzati verso compartimenti cellulari ricchi di recettori che percepiscono le minacce microbiche e rilasciano molecole connesse alle tempeste citochiniche. “Questo è un fatto ben noto”, dice Iwasaki. “Perché anche SARS-CoV-2 non dovrebbe essere riconosciuto in questo modo?” Alcune ricerche di precedenti epidemie di coronavirus, infatti, corroborano l’idea per cui gli anticorpi possano scatenare una patologia infiammatoria cooptando i macrofagi. In un’analisi effettuata su scimmie, pubblicata l’anno scorso su “JCI Insight”, alcuni ricercatori cinesi hanno dimostrato che gli anticorpi anti-SARS-CoV provenienti dal siero di animali vaccinati erano sufficienti a scatenare danni polmonari in un gruppo di animali non vaccinati. Gli anticorpi trasferiti hanno peggiorato la malattia e sembravano far passare i macrofagi polmonari da uno stato protettivo a uno patogeno, come emerso da un esame dell’attività genetica delle cellule immunitarie.
L’ADE è saltato fuori come un problema sospetto anche per altri vaccini. Alcuni contro dengue e virus respiratorio sinciziale hanno provocato gravi reazioni immunitarie. Gli anticorpi potrebbero essere tra gli iniziatori, ma gli scienziati che si occupano di vaccini dicono che i danni ai tessuti collegati alla risposta immunitaria sono una preoccupazione potenzialmente ancora maggiore. Danni a fegato e polmoni causati da una reazione infiammatoria si sono verificati in animali infettati dal virus della SARS dopo la vaccinazione. Ma l’ADE come meccanismo è stato documentato in esperimenti in laboratorio, quindi il fenomeno “è un po’ più teorico”, dice Peter Hotez, co-direttore del Texas Children’s Hospital Center for Vaccine Development, che si sta basando sul suo lavoro sul vaccino contro la SARS per creare un vaccino per COVID-19. Anche se è possibile che anticorpi sub-ottimali possano portare a infiammazioni e danni ai tessuti, Hotez afferma che questi problemi potrebbero anche derivare dall’attività aberrante dei linfociti T, che rappresentano un altro tipo di arma contro i virus nell’arsenale del sistema immunitario. Uno studio pubblicato il 14 maggio su “Cell” suggerisce che i linfociti T specifici per SARS-CoV-2, quando funzionano normalmente, possono aiutare le persone a combattere la COVID-19. Gli scienziati sono ben consapevoli del potenziale pericolo dell’ADE. È “qualcosa che può accadere”, dice Paul Henri Lambert, specialista in vaccini dell’Università di Ginevra e consulente della Coalition for Epidemic Preparedness Innovations (CEPI). “Ma in questa fase non abbiamo alcuna prova che ciò sia un problema per i vaccini contro SARS-CoV-2”.
Moderna, un’azienda di biotecnologie del Massachusetts che di recente ha annunciato i risultati preliminari di un trial clinico in fase iniziale del suo vaccino per COVID-19 a base di RNA, non ha trovato alcun problema di salute grave nei partecipanti allo studio. Un altro vaccino anti-COVID-19 che è stato testato in un triai in fase preliminare in Cina è apparso sicuro e ha prodotto anticorpi neutralizzanti in alcuni dei 108 partecipanti, secondo uno studio pubblicato su “The Lancet”. Diversi altri vaccini anti-COVID-19 sono stati testati in primati non umani. Uno è stato ottenuto da un virus inattivato da ricercatori in Cina, che hanno riferito il 6 maggio che la dose più alta ha garantito protezione. Il gruppo non ha trovato alcuna prova di potenziamento della malattia in quattro scimmie analizzate sette giorni dopo essere state infettate da SARS-CoV-2. Il 13 maggio è stato pubblicato sul server di pre-stampa bioRxiv un articolo non sottoposto a revisione su un secondo vaccino sviluppato usando la proteina di SARS-CoV-2 responsabile dell’ingresso virale nelle cellule ospiti. Neppure questo ha mostrato segni di potenziamento della malattia. E in uno studio del 20 maggio su macachi immunizzati con un altro tipo di candidato (un vaccino a DNA), gli autori hanno riferito che “non hanno osservato alcun potenziamento della malattia clinica, neppure con i costrutti del vaccino sub-ottimali che non sono riusciti a fornire una protezione”.
Stanley Perlman, medico e immunologo virale dell’Università dell’Iowa, ha partecipato ai comitati per il vaccino COVID-19 istituiti sia dagli statunitensi National Institutes of Health sia dall’Organizzazione mondiale della Sanità. Questi comitati hanno discusso a fondo dei possibili rischi posti dall’ADE, afferma. Ma data l’urgenza della pandemia, Perlman aggiunge: “Da una parte ci dicono che dobbiamo ottenere un vaccino ‘per ieri'”. Altri invece dicono: ‘Oh no, dobbiamo stare molto attenti’. Come bilanciare tutto questo? Non possiamo aprire il paese finché non abbiamo un vaccino, finché non abbiamo l’immunità del gregge. Quindi diventa una domanda difficile: qual è la linea d’azione più corretta?”
La vera domanda è se i vaccini per COVID-19 causeranno l’ADE quando saranno somministrati a centinaia di migliaia di persone. Questa preoccupazione è condivisa dai ricercatori che testano se il plasma sanguigno dei pazienti guariti può curare in modo sicuro le persone ricoverate in ospedale con la malattia. L’ADE non è stato finora segnalato in uno studio su 5000 pazienti a cui è stato somministrato il plasma di soggetti convalescenti a livello nazionale, pubblicato il 14 maggio sul server di pre-stampa medRxiv. Le analisi delle risposte immunitarie in volontari della fase iniziale di un trial clinico e in primati non umani studiati prima di passare alla fase successiva di una determinata indagine dovrebbero essere in grado di identificare i vaccini a potenziale rischio di potenziamento delle difese immunitarie, dice Lambert. Hotez pensa che sarà importante osservare l’ADE e le reazioni infiammatorie dannose quando si immunizzano i partecipanti allo studio nelle aree in cui il virus si sta diffondendo. “Se si cerca di evidenziare questo tipo di problema, è lì che potrebbe emergere”, dice. “Negli individui che sono vaccinati e poi esposti al virus, l’intenzione è monitorare la funzionalità epatica e polmonare per assicurarsi che non ci sia un peggioramento”.
Oltre ai vaccini, l’ADE potrebbe influire su altri aspetti della risposta immunitaria a SARS-CoV-2. Jorge Caballero, anestesista della Stanford University che organizza dati e supporto ingegneristico per i test di sorveglianza su COVID-19, si chiede se il processo possa essere alla base di altre manifestazioni della malattia, tra cui “geloni” alle dita dei piedi da COVID, difficoltà respiratorie legate alla patologia polmonare e una misteriosa condizione infiammatoria che colpisce alcuni bambini con la malattia. I dati emergenti “suggeriscono che il legame comune – il rasoio di Occam, se si vuole – potrebbe essere un fenomeno poco compreso conosciuto come potenziamento dipendente da anticorpi”, dice.
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