di Andrea Dei, da “Omeopatia33” del 12 gennaio 2024
Le reazioni avverse ai farmaci sono una delle prime cause di malattia e di morte in tutto il mondo. Negli Stati Uniti costituiscono la causa di circa il 5% dei decessi ospedalieri e i dati dei paesi dell’OCSE sottolineano che esse rappresentano il 15% della spesa ospedaliera. In Italia i dati della Federanziani, ancorchè contestati dall’AIFA, parlano di 40.000 decessi all’anno e di 1.750.000 di giornate/anno di degenza ospedaliera dovute a gravi reazioni avverse a terapia farmacologica.
Una comunicazione del prestigioso Centro di Riferimento Oncologico di Aviano sottolinea come il 40% dei pazienti manifesti intollerabilità alle terapie con effetti purtroppo compromettenti per la salute del paziente, ma come tale percentuale possa diminuire significativamente attraverso l’utilizzo di un esame preliminare della risposta genetica individuale al farmaco. I fattori che determinano tali reazioni avverse sono diversi ma in gran parte sono riconducibili all’interazione specifica fra il gene coinvolto nel metabolismo del farmaco e la molecola del farmaco stesso. La formazione di un addotto fra la sequenza di nucleotidi che costituisco il gene e la molecola del farmaco con conseguente reazione anomala è state riportata per oltre 100 farmaci diversi come analgesici, antitumorali, anticoagulanti, antidepressivi, antipertensivi, antiepilettici, anti-psicotici e così via. Ma quello che è più stupefacente è il fatto che i laboratori abilitati ad effettuare test farmacogenetici siano in numero estremamente limitato per motivi burocratici e culturali, perché non è chiaro chi debba prescrivere i test, quale laboratorio sia autorizzato a farli e chi debba validarli, anche perché la grandissima parte dei medici non sono preparati poi a tradurli nella pratica clinica. Tuttavia è auspicabile che in un prossimo futuro questo ostacolo possa essere rimosso e che le difficoltà della metodica possano essere attenuate. Nell’attesa il mondo della farmacologia tende a minimizzare il problema con proposizioni suadenti che richiamano le affabulazioni del Gatto e la Volpe in Pinocchio.
Ai miei occhi di non medico il problema è diverso e sta in gran parte nella concezione errata dell’organismo vivente che è alla base della biomedicina. Il modello è sempre quello cartesiano dell’organismo-macchina che prevede che l’anomalia di funzionamento sia dovuta a un singolo meccanismo biologico che va inibito con un farmaco o addirittura rimosso chirurgicamente. In altre parole la situazione è sempre quella che portò Pasteur fra un ictus e l’altro a rimpiangere di aver reso noto al popolo ciuco le sue scoperte scientifiche, visto che venivano recepite e utilizzate a metà. Son passati più di due secoli da quando Jean Baptiste de Lamarck formulò, fra le prese di giro dei colleghi, la sua teoria evoluzionista, che fu poi ripresa da Cuvier e finalmente da Darwin facendo imbufalire tutti i seguaci della fissità aristotelica, che aveva bloccato l’umanità per duemila anni. Per non parlare di quelli che credevano che gli esseri viventi fossero immutabili, visto che glielo aveva detto personalmente di persona l’Altissimo. Ma la biomedicina il fatto l’ha ignorato e continua a ignorarlo fra le proteste vivaci e silenziate degli evoluzionisti. Resta il fatto che è ormai accertato che il fenotipo (ovvero l’ insieme di tutti i caratteri che definiscono un organismo vivente) è il risultato della risposta genetica alle variazioni dell’ambiente esterno e che tale risposta è diversa a seconda della storia dell’organismo stesso. In altre parole l’organismo va visto come una realtà dinamica e non statica, come invece presuppone il modello dell’organismo macchina.
Ora va sottolineato che l’assunzione di un farmaco altro non è che una interazione con l’ambiente e la risposta genetica può essere estremamente complessa da prevedere. Resta il fatto che la risposta dell’organismo dà origine sempre a un meccanismo adattativo efficace quando la perturbazione che deriva dall’esterno è di bassa intensità, ma che l’organismo soccombe quando tale perturbazione è grande. Quello che è parimenti importante è il fatto che il meccanismo adattativo che segue una bassa perturbazione diventa sempre vantaggioso per l’intero organismo permettendo il ripristino totale o parziale della normale risposta genetica, dal momento che molte delle sue anomalie sono reversibili. Pertanto una strada da seguire nel caso si verificassero reazioni avverse all’assunzione di un farmaco potrebbe essere una serie di somministrazioni preliminari a bassa dose.
Tutto sommato il tutto richiama tanto i principi della farmacologia delle microdosi e dei meccanismi ormetici che definiscono il fenomeno attraverso una interazione diretta o mediata farmaco-gene, dal momento che l’omeostasi e la sua eventuale sovracompensazione in questo caso in prima approssimazione non c’entrano. Sembra l’epigrafe sulla tomba di La Palice, ma è quello che da anni sostiene la SIOMI con la contrarietà e l’anatema di tanti omeopati forse perché c’è puzzo di Medicina Integrata. Ma potrebbe essere la chiave di volta per uno sviluppo del futuro della medicina.
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