di Gino Santini, da “Omeopatia33” del 12 giugno 2024
Chi si occupa di ricerca clinica conosce molto bene i due volti della parola “efficacia”, sfumatura non di poco conto che viene resa al meglio dagli anglosassoni, che parlano più correttamente di “effectiveness” e “efficacy”; con il primo termine si intende quello che emerge sulla sostanza studiata dai risultati ottenuti nelle circostanze più aderenti possibile al suo utilizzo nella vita reale, mentre l’efficacy ne studia l’effetto puro e semplice, al di fuori di tutte le variabili addizionali confondenti, appositamente tenute fuori dallo schema sperimentale mediante utilizzo di placebo, doppio cieco, randomizzazione, etc. secondo i rigidi canoni della Evidence Based Medicine (EBM).
Quindi mentre uno studio di effectiveness risponde alla domanda: “Cosa può aiutare il paziente con questa patologia nella pratica clinica?”, quelli diretti all’efficacy forniscono informazioni sulla eventuale reazione causale tra un effetto terapeutico e una sostanza. Non è la stessa cosa, perché alcuni interventi potrebbero mostrare grandi effetti specifici, ma poi rivelarsi non così utili nelle cure di routine come altri trattamenti che magari mostrano effetti specifici minori negli studi randomizzati. Ecco perché domande diverse richiedono studi diversi, fenomeno ben noto da molto tempo1 e largamente comprensibile, se teniamo conto della complessità dell’oggetto di studio, ovvero l’organismo inserito in un contesto ambientale, e delle numerose variabili in gioco2.
Trasportando il discorso in campo omeopatico, cominciamo con il dire che gli studi nel settore dell’omeopatia documentano risultati più o meno uniformi: nei pazienti sottoposti a trattamento omeopatico nell’ambito delle cure di routine, si osservano miglioramenti clinici rilevanti, come il recente convegno londinese dell’Homeopathy Research Institute ha recentemente dimostrato3. Non solo: se paragonati alle cure convenzionali i risultati sono spesso simili o addirittura migliori, ma con meno effetti avversi e, nella maggior parte degli studi di economia sanitaria, con costi sensibilmente inferiori. Basti pensare che, a puro titolo di esempio, gli esiti a lungo termine di uno studio di coorte con 3.981 partecipanti documentano che anche i pazienti che non hanno ottenuto risultati soddisfacenti dai trattamenti convenzionali traggono beneficio dall’omeopatia4.
Ma allora, urlano ai quattro venti gli scettici di primo pelo, perché i risultati degli RCT in omeopatia sono così eterogenei? Bypassando per carità umana l’acqua fresca di chi non vuole approfondire il discorso, questo avviene semplicemente perchè si utilizza un metodo di ricerca più orientato alla patologia che non alle peculiarità del paziente. È quello che si ottiene quando si utilizza una strategia, estremamente utile in molte circostanze acute, decisamente mirata a eliminare i cosiddetti “fattori confondenti (bias), che guardacaso comprendono anche gli elementi di individualità che sono quelli che, in maniera determinante, caratterizzano la cronicità. In sintesi: qualità versus quantità. Se non conosciamo la disciplina e accettiamo di superare il muro ideologico, il problema si risolve chiedendo lumi a chi la questione l’ha approfondita5, altrimenti il rischio è quello, clamoroso, di incorrere in forzature che arrivano a conclusioni aberranti e successivamente smentite, come nei famigerati casi della metanalisi di Shang o del Report australiano.
Quando il ragionamento sui dati è influenzato dal pregiudizio della plausibilità, ci si oppone maldestramente ai principi fondamentali del metodo scientifico: Cartesio sosteneva, correttamente, che il dubbio è l’inizio della conoscenza, per cui se incontri un fenomeno che non puoi spiegare sufficientemente per mezzo di teorie consolidate, le tue teorie devono essere modificate o se ne devono trovare di nuove. Trascurare l’esistenza di qualcosa che puoi osservare in esperimenti metodologicamente sorprendenti perché ti manca un modello per il suo modo di agire, significa muoversi nel dogmatismo. Sulle orme di Walach, siamo fieri sostenitori degli RCT (Randomized Controlled Trial), superbi strumenti di ricerca al pari del bisturi di un chirurgo. Ma nessuno di noi userebbe un bisturi per tagliare il pane o cesellare una statua.
Riferimenti bibliografici
- 1.Walach H. The efficacy paradox in randomized controlled trials of CAM and elsewhere: beware of the placebo trap. J Altern Complement Med. 2001;7(3):213-218. doi:10.1089/107555301300328070
- 2.Walach H, Falkenberg T, Fønnebø V, Lewith G, Jonas W. Circular instead of hierarchical: methodological principles for the evaluation of complex interventions. BMC Med Res Methodol. 2006;6:29. doi:10.1186/1471-2288-6-29
- 3.Roberts E, Mosley A, van der, Tournier A. HRI London 2023: The Homeopathy Research Community Reunites after a 4-Year Hiatus, Sparking Fresh Collaborations between Researchers “Old and New”. Homeopathy. 2024;113(1):49-52. doi:10.1055/s-0043-1777120
- 4.Witt C, Lüdtke R, Baur R, Willich S. Homeopathic medical practice: long-term results of a cohort study with 3981 patients. BMC Public Health. 2005;5:115. doi:10.1186/1471-2458-5-115
- 5.Mathie R, Van W, Rutten A, et al. Model validity of randomised placebo-controlled trials of non-individualised homeopathic treatment. Homeopathy. 2017;106(4):194-202. doi:10.1016/j.homp.2017.07.003
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