di Claudia Passa, su “L’Occidentale” del 2 maggio 2020 – LINK
In principio furono gli antirazzisti dell’”abbraccia un cinese” contro i rigoristi che si interrogavano sull’opportunità di anteporre la libera circolazione di chiunque a una sana prudenza di fronte alle notizie sempre più preoccupanti che giungevano da Wuhan. I primi, soprattutto a sinistra, ad accusare i secondi (beceri fascisti, ovvio) di voler drammatizzare una banale influenza con lo scopo di costruire muri alle frontiere e realizzare il sogno di uno Stato legge e ordine.
Poi è arrivata l’onda d’urto della realtà, e con essa il lockdown. Orfani degli aperitivi solidali, i fautori della “società aperta” si sono riconvertiti agli arcobaleni, ai canti sul balcone e allo slogan “andrà tutto bene”, urticante per l’altra metà del cielo che intravedeva nel combinato disposto tra la segregazione e il claudicante approccio governativo al problema del fermo commerciale e produttivo i prodromi di una crisi economica senza precedenti.
Col passare delle settimane i sette colori dell’iride si sono sbiaditi, le voci si sono spente, il distanziamento ha cominciato a farsi alienazione e il rancore ha preso il sopravvento. Quelli degli involtini primavera solidali hanno assunto la guida del partito dei “restoacasisti”, del dagli all’untore, di una sostanziale assuefazione al limite della sociopatia a questo stato di cose, mentre sull’altro fronte è iniziata a montare l’insofferenza verso una clausura prolungata senza un orizzonte definito, verso una politica incapace di una concreta assunzione di responsabilità, verso il sogno (o l’incubo) della tecnocrazia al potere. Tu chiamalo, se vuoi, vitalismo.
Adesso, con l’epic fail della classe dirigente al comando e la conclamata inconsistenza delle misure governative messe in campo, da un piano impressionistico la faglia che al tempo del Covid-19 separa gli apocalittici e gli integrati si va spostando sempre più nettamente sul piano socio-economico, e al pettine vengono i nodi di un confronto carsico fra visioni del mondo che ha attraversato il nostro Paese nei decenni.
I catastrofici numeri previsionali sul Pil e sull’occupazione sono ormai noti, e non serve in questa sede ripeterli. Il dato sul quale concentrare l’attenzione lo ha fornito invece in questi giorni il capo del dipartimento economia e statistica della Banca d’Italia. Nei conti pubblici – ha spiegato – si sta aprendo una voragine di dimensioni vertiginose. E sapete perché? Perché stando alle cifre già disponibili il gettito fiscale per le casse dello Stato subirà per il 2020 un calo vertiginoso che non ha precedenti almeno nell’ultimo mezzo secolo.
Detta così sembrerebbe una ovvietà. Se invece si scava al fondo delle cose, la circostanza dovrebbe far riflettere i tanti che in queste settimane, forti del bonifico assicurato il 27 del mese, non hanno avuto vergogna a mostrare un sadico godimento di fronte alle difficoltà della schiera di autonomi e imprenditori che affolla il registro delle partite Iva, considerati una pletora di mangia pane a tradimento, evasori fiscali pronti ad arricchirsi grazie a una mangiatoia alimentata da coloro ai quali le tasse vengono prelevate alla fonte. Finora, infatti, l’ammanco per l’erario non è stato rappresentato dai tributi trattenuti dalla busta paga dei dipendenti, che hanno continuato a ricevere regolarmente lo stipendio, ma dal fermo delle attività produttive. E ciò dovrebbe essere sufficiente a sfatare un mito ben radicato (dipendenti buoni VS autonomi cattivi), che solo la reclusione da coronavirus ha impedito quest’anno alla retorica del primo maggio di rinverdire.
Tutto questo non certo per minimizzare il problema dell’evasione, e tantomeno per invertire il paradigma e commettere l’errore uguale e contrario. A garanzia di ciò valga non tanto il fatto che chi scrive queste righe detiene un reddito da lavoro dipendente (ancorché assai precario), quanto la consapevolezza che in un sistema economico tutto si tiene in equilibrio. Certo, i dipendenti hanno lo stipendio a fine mese e alcuni ammortizzatori sociali, gli autonomi hanno la possibilità di guadagnare molto di più nelle fasi ascendenti del ciclo. Sicché sarebbe facile dire oggi a partite Iva e imprenditori “voi guadagnate tanto quando le cose vanno bene mentre noi dobbiamo accontentarci del nostro salario, ora noi stiamo tranquilli e voi arrangiatevi con il fieno che avete in cascina”. Ma il punto è che non funziona così.
Uno dei grandi inganni di questa pandemia al quale non dobbiamo cedere è la tentazione di rinnovare su basi inedite e completamente distorte il conflitto sociale tra garantiti e non garantiti. Non soltanto per un fatto di empatia, che richiederebbe di provare almeno per un istante a immedesimarsi nello stato d’animo di chi ha costruito con anni di fatica un’attività con la quale dà lavoro ad altre persone e fa crescere il proprio territorio e vede da un giorno all’altro trasformarsi il frutto dei propri sacrifici in un peso insostenibile. Ma, soprattutto, perché in una fase post-bellica quale quella che ci apprestiamo ad affrontare non esistono garantiti ma soltanto illusi.
Se crollano le attività produttive, dopo le partite Iva i primi a saltare saranno i dipendenti privati. Ma se manca il gettito delle imprese non ci saranno soldi per gli ammortizzatori sociali. E se si innesca una spirale greca – come probabilmente a qualche euroburocrate non dispiacerebbe – ci vorrà poco perché anche a coloro che oggi si sentono al caldo di un pubblico impiego venga chiesto di partecipare al sacrificio nazionale. E’ l’inveramento della decrescita infelice che da programma elettorale si è fatto spettro di governo. E che i cittadini, a cominciare dai garantiti o dai presunti tali, dovrebbero ben guardarsi dall’assecondare.
Non parliamo purtroppo di scenari da fantascienza. Il Parlamento ha appena approvato un ulteriore scostamento di bilancio di 55 miliardi, e con il debito pubblico che ci ritroviamo sarà difficile che per un bel po’ se ne possa prevedere un altro. E l’evocazione della Grecia appare assai poco peregrina se è vero, come è ormai indiscutibilmente vero, che il MES al quale il nostro governo (con il placet di un pezzo di opposizione) si prepara subdolamente ad aderire è tutt’altro che privo di condizionalità. Insomma, la “troika light” è assicurata. Si tratta solo di mercanteggiare sulla quantità di vasellina.
In questo quadro, assodato che sulla consapevolezza e sulla solidarietà di coloro che si trovano oggi al governo del Paese non è possibile contare, saldare vecchi conti ideologici fra segmenti sociali significherebbe alimentare una guerra fra poveri che avrebbe il solo effetto di accelerare il tracollo della nostra economia e, a seguire, della nostra società. E’ il momento che chi ha ancora uno stipendio a fine mese sia solidale con le imprese e, nei limiti del possibile, si preoccupi di come spenderlo. E’ il momento di far capire all’esecutivo che nonostante le manovre divisive per blandire i presunti garantiti (tipo l’assurdo bonus di 100 euro ai dipendenti che hanno continuato ad andare sul posto di lavoro) il Paese farà fronte comune a salvaguardia dell’economia reale e non lascerà morire la sua classe produttiva.
Il virus ci ha risparmiato le cazzate annualmente sparate dal palco del concertone di piazza San Giovanni. Con la testa pulita dalle scorie della lotta comunista di classe, è il momento di renderci conto che stiamo tutti sulla stessa barca e di remare nella medesima direzione.
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