Intervista di askanews all’immunologo Andrea Cossarizza – LINK
L’immunità alla Covid-19, un traguardo o una chimera? L’immunologo Andrea Cossarizza fa il punto della situazione, con una sorpresa, una possibile arma in più, oltre al vaccino, per combattere ai fianchi il nuovo coronavirus, partendo dalla risposta a una domanda di base: che cosa succede al nostro organismo di fronte al nuovo virus? Il professor Cossarizza, docente di Patologia generale e Immunologia all’Università di Modena e Reggio Emilia (UniMoRe), con il gruppo che guida a Modena ha svelato alcuni dei meccanismi immunologici messi in moto dalla tempesta di citochine, nella forma più grave della Covid-19, con uno studio che è stato pubblicato sulla prestigiosa Nature Communications, e un secondo studio sull’European Journal of Immunology. Due studi molto importanti, di cui si è parlato poco, che hanno individuato moltissime molecole che si scatenano, svelando meccanismi e collegamenti inaspettati tra le citochine e i linfociti: una mappa della risposta immunitaria che ha anche aperto la strada all’uso possibile di nuovi farmaci.
Ecco come tutto è partito.
“I primi pazienti Covid – racconta Cossarizza – sono arrivati a Modena, nel reparto di Malattie Infettive a fine febbraio, e abbiamo subito iniziato a studiare il loro sangue. In un paio di settimane siamo riusciti ad avere i primi dati. Sono serviti a segnare il punto di partenza: cosa l’immunologia deve fare per capire e affrontare il nuovo virus. Poi abbiamo avuto dati più consistenti e a metà aprile un primo studio è stato inviato a Nature Communications che lo ha subito messo in rete, perché dava informazioni nuove sulla tempesta delle citochine. Infine, è stato sottoposto a revisione, approvato e pubblicato a inizio luglio. A questo ne è subito seguito un altro, pubblicato a fine luglio”.
Cosa hanno fatto a Modena?
I ricercatori hanno esaminato nel plasma la risposta immunitaria al virus di 39 pazienti ricoverati in ospedale con forme severe di Covid-19 (mal di gola, febbre, tosse, difficoltà respiratorie, dolore toracico e segni radiologici di polmonite, prima di una eventuale intubazione). Hanno usato una tecnica molto sofisticata, che solo pochi laboratori sono in grado di usare, una sorta di metal detector che con l’uso di sonde fluorescenti legate ad anticorpi scannerizza una ad una le cellule. Così hanno identificato centinaia di tipi di cellule diverse tra loro, il loro comportamento, come si coordinano per rispondere al virus e quali molecole producono. Le cellule del sistema immunitario, i linfociti, sono infatti organizzate in gruppi, con funzioni diverse, coordinati da molecole solubili, le citochine, che, in condizioni normali, ottimizzano la risposta difensiva dell’organismo. Ma con il nuovo virus tutto cambia.
“Con la Covid-19 il coordinamento tra i vari gruppi di cellule è quasi completamente perso, anzi tutti vanno in guerra contemporaneamente e finiscono persino per combattersi. Chi attiva altre cellule, chi invece le spegne, chi produce anticorpi, chi ne blocca la produzione. Un fuoco amico che devasta il polmone e molti altri tessuti del corpo, specie quelli vascolari, inclusi vasi sanguigni e cuore, con una reazione infiammatoria esagerata, il cui nome dice tutto: tempesta di citochine. La tempesta citochinica scatenata dal SARS-Cov-2 è tale da coinvolgere, in maniera assolutamente anomala, una marea di molecole. Oltre alla interleuchina-6, responsabile della risposta infiammatoria comune, abbiamo visto che almeno altre 20 molecole di questa categoria sono coinvolte, se non di più ancora. Una marea di citochine che cambiano, che aumentano in maniera micidiale e che sono prodotte in maniera anomala. Ci sono cellule già differenziate, cellule che si devono differenziare, cellule che hanno un marcatore di senescenza, linfociti attivati, altri funzionalmente esausti, esauriti, linfociti che producono molecole con effetti biologici opposti. E’ una risposta caotica senza alcuna logica che massacra la risposta immunitaria. E’ un po’ come correre alle Olimpiadi la finale dei 400 metri ostacoli, arrivare primi ma completamente stremati, e il giudice intima: ‘gara sbagliata, inizi subito a correre per la maratona che gli altri sono già partiti’. Il sistema immunitario è stremato, e si arriva all’esaurimento funzionale”. Ma “nel mezzo della battaglia abbiamo anche trovato alcune molecole che si candidano ad essere un bersaglio terapeutico”.
Ed ecco la prima novità dello studio di Nature Communications: “Sapevamo che c’era una tempesta di citochine in Covid-19, non sapevamo ancora che una delle citochine più importanti era l’interleuchina-17. Questa non è una piccola notizia, perché contro l’IL-17 ci sono già almeno due farmaci disponibili, già testati con successo nelle malattie infiammatorie articolari, due anticorpi monoclonali”, farmaci che si aggiungono al tocilizumab per l’interleuchina-6. Un altro anticorpo monoclonale, e non a caso Rino Rappuoli, il mago dei vaccini che a Siena guida la divisione scientifica della multinazionale Gsk, punta anche sugli anticorpi monoclonali, il secondo pilastro per la lotta alla Covid-19. L’altra scoperta notevole di Modena è la rilevazione di un’altra citochina che danneggia il polmone, la interleuchina-8, una molecola già rilevata con la Sars. e “anche per questa molecola è in preparazione un farmaco sperimentale”. Quindi “in pochi mesi Covid-19 già sembra un’altra malattia e non perché l’Rna – precisa l’immunologo – si è modificato, il virus è sempre lo stesso, ma perché in ospedale, dal punto di vista clinico, siamo in grado di trattare meglio i pazienti. Soprattutto da quando abbiamo iniziato ad usare il tocilizumab”. Sempre a Modena infatti è stato condotto uno studio dal gruppo guidato da Cristina Mussini, direttore delle Malattie Infettive, pubblicato su Lancet Reumatology, e “questo farmaco – ricorda Cossarizza – se usato bene, al momento giusto e con la giusta dose (questo è il punto nodale), riduce la mortalità quasi dell’80%, una percentuale notevole”.
“Serve la terapia giusta per ogni paziente, i farmaci che possono bloccare le diverse molecole infiammatorie vanno dosati e somministrati al momento giusto, c’è la probabilità che sia possibile utilizzare un cocktail di farmaci biologici, bilanciando le dosi anche per ridurre la tossicità, come accade con i tumori o con l’Hiv, ma questo è ancora tutto da provare. Servono ulteriori studi, che però speriamo di non fare!”.
Lo studio di Modena dà anche una possibile risposta al perché gli anziani sono più esposti alla malattia: “Con l’avanzare dell’età, i linfociti sono cronicamente attivati, ed esiste un fenomeno che molti anni fa abbiamo definito ‘inflamm-aging’, ovvero il fatto che con l’invecchiamento si instaura uno stato di infiammazione cronica molto debole ma persistente”. E perché anche alcuni giovani sono colpiti da una forma grave di Covid? “L’obesità è uno dei fattori che più pesa nella prognosi per i giovani che hanno contratto la Covid-19, l’obesità genera infiammazione cronica, e tra le citochine coinvolte c’è proprio la IL-17. Questa è una prima parziale risposta, perché resta da spiegare perché, anche a parità di condizioni, alcune persone finiscono in rianimazione e altre sono asintomatiche. Bisogna ancora capire perché in alcune persone non c’è alcun tipo di stimolo e in altre la risposta immunitaria diventa una tempesta. Questo fenomeno non l’ho mai visto nella mia carriera, ma COVID-19 è una malattia nuova, dobbiamo studiarla ancora”.
E il nostro organismo quanto riesce ad immunizzarsi? Secondo uno studio del King’s College di Londra, dopo 3 mesi i livelli di anticorpi crollano. Alcuni casi di reinfezione sono documentati un po’ dovunque nel mondo. Una ricerca italiana (Irccs Burlo Garofalo di Trieste) e inglese pubblicata sulla rivista BMJ Global Health ha avanzato addirittura l’ipotesi che l’immunità acquisita potrebbe essere pericolosa, favorendo re-infezioni con sintomi più gravi. E’ il meccanismo noto come Ade Antibody-dependent enhancement (potenziamento dipendente dall’anticorpo), succede con altri coronavirus come Mers e Sars, o altri virus come West Nile e Dengue.
Un’altra ricerca (dell’italiano Alessandro Sette che guida il Dipartimento di ricerca sui vaccini del La Jolla Institute of Immunology a San Diego, in California) ha trovato nel 50% dei campioni di sangue dei donatori americani, prelevati tra il 2015 e il 2018 cellule T cross-reattive al Sars-Cov-2. Cosa significa per il sistema immunitario? “I coronavirus – spiega l’immunologo – sembrano non indurre una forte immunità, sono difficili da combattere. Verosimilmente avremo bisogno di indurre una risposta immunitaria basata sia sugli anticorpi che su cellule come i linfociti T, in grado di distruggere le cellule infette prima che comincino a produrre altro virus. Anche se l’immunità sembra blanda, il vaccino è possibile, perché oggi abbiamo mille metodi per modificare i vaccini e la risposta immunitaria, si possono disegnare vaccini in modo tale da indirizzare l’immunità dove è necessario farlo. Sicuramente una risposta anticorpale c’è, ma la risposta immunitaria va ancora studiata e questo è essenziale per un buon vaccino. Ci sono lavori in corso sulle regioni del virus che inducono un certo tipo di risposta e studi su praticamente tutti i tipi di linfociti. Invece, lo studio di Alessandro Sette ha rilevato un’altra cosa ancora: sia nei linfociti T che negli anticorpi c’è una reattività incrociata molto forte con i virus precedenti dello stesso tipo. Ovvero, una persona che ha avuto una o più infezioni da coronavirus, come un banale raffreddore, può produrre anticorpi, e quando poi contrae il Sars-Cov-2 le cellule che hanno prodotto questi anticorpi, anche anni prima, sono cross reattive con il nuovo virus. Come se chi tifa Inter, magari un giorno è un po’ distratto, e si confonde con la maglia dell’Atalanta che ha gli stessi colori, ma calciatori diversi. Un fenomeno non proprio raro nella risposta immunitaria”.
E questo meccanismo ci protegge?
“Ni. Il problema è che molte volte gli anticorpi cross reattivi sono a bassa affinità e reattività, non sono capaci di funzionare bene, ma, di nuovo, servono ulteriori studi per capirlo. Abbiamo però anche capito quali danni subiscono le cellule circolanti che devono produrre anticorpi”.
E tutto questo che conseguenze ha nella ricerca di un vaccino (che funzioni bene)?
“Quando si fa un vaccino, di qualunque tipo, questi sono gli argomenti che si devono affrontare. Questa non è una novità. E’ assolutamente normale valutare l’efficacia di un vaccino in termini di capacità di neutralizzare il patogeno, è assolutamente normale valutare la durata degli anticorpi, la potenza della produzione degli anticorpi e l’eventuale insorgenza di reazioni sfavorevoli. Rientra nelle regole, non c’è niente di nuovo”.
I candidati vaccini sono in totale 226. Alcuni in fase molto avanzata: la Russia ha annunciato la vaccinazione di massa ad ottobre, mentre i dati pubblicati su Lancet del vaccino Oxford-Pomezia (già prenotato dal governo italiano, con i test di fase 3 in corso in Brasile, i cui risultati su 10mila persone sono attesi ad agosto-settembre) e del vaccino cinese della Cansino (già iniettato ai militari dell’Armata Rossa) parlano di “forte risposta immunitaria e anticorpale”. Il traguardo di tutti è garantire una prima somministrazione, almeno alle categorie a rischio, quest’autunno, quando è attesa una ripresa della circolazione del virus, e una distribuzione più allargata nel 2021.
Con questi tempi, sarà un vaccino sicuro ed efficace?
“Un vaccino altamente efficace entro la fine del 2020 mi sembra poco probabile, ma non lo si può escludere. Ci sono numerosissimi gruppi di ricerca che ci stanno provando, con tutto il loro impegno, ed è anche possibile che qualcuno ci riesca. In medicina però si devono fare osservazioni scientificamente impeccabili, si deve guardare l’aspetto reale delle cose. Quindi oltre a verificare la produzione di anticorpi e linfociti T, stabilire se sono anticorpi neutralizzanti o meno, il vero banco di prova di un vaccino è vedere in un’epidemia seguente, o quando c’è una malaugurata seconda ondata, come va la risposta delle persone vaccinate. Per il vero challenge, ovvero per vedere quanto sia forte la protezione dell’infezione in persone precedentemente vaccinate, ci vuole un po’ di tempo. Ed è l’unico tipo di analisi che può darci le risposte definitive che servono”.
Che ne pensa a questo proposito della lettera-appello al National Institute of Health americano, firmata anche da 15 premi Nobel, per somministrare a volontari sani prima il vaccino e poi il virus, proprio per fare prima?
“Onestamente – risponde Cossarizza – mi piace pochissimo l’idea di iniettare in un essere umano in buona salute un virus che ha già ucciso centinaia di migliaia di persone. E cosa accade se per qualche motivo – e ce ne possono essere moltissimi – il volontario non produce una risposta immunitaria efficiente? No, iniettare a qualcuno un virus di cui sappiamo ancora troppo poco, proprio no.”
Sui tempi del vaccino quindi, staremo a vedere, ma sulla possibilità di avere un vaccino l’immunologo ha pochi dubbi, perché il paragone con l’Hiv, per cui il vaccino non l’abbiamo avuto nonostante gli sforzi, non calza: “Si tratta di un virus totalmente diverso, l’Hiv ha un’instabilità molto più alta, le regioni del virus cambiano ad una velocità impressionante, nel Sars-Cov-2 sono molto stabili; è un altro animale. Un animale nuovo ma che già dopo pochi mesi conosciamo meglio, sono stati pubblicati già una moltitudine studi, serve solo un po’ più di tempo per conoscere meglio la risposta immunitaria ed avere un buon vaccino. Perché possiamo averlo”.
E allora cosa si deve fare adesso?
“Guadagnare tempo, e non farci prendere dal panico, ma non pensare che sia finito tutto solo perché calano i contagi e la mortalità. Adesso dobbiamo continuare a tenere comportamenti individuali responsabili, dobbiamo continuare a usare i dispositivi di protezione individuale, indossare le mascherine, evitare gli assembramenti. Sul fronte clinico, l’aver capito quali sono i problemi che crea il virus al sistema immunitario permette di usare dei farmaci e di usarli bene, come il tocilizumab; il fatto di aver capito che ci sono molte altre molecole coinvolte nella tempesta citochinica potrebbe aprire all’uso di nuovi farmaci biologici, anticorpi monoclonali che vanno studiati e provati, e quindi c’è una possibilità teorica di cura in più. Abbiamo visto quali sono le cellule che vanno incontro a esaurimento funzionale, dobbiamo cercare di evitarlo; e ci sono altri studi in corso, ad esempio sui linfociti che vengono ingannati dalla malattia. Ci sono molti orizzonti da sondare e molte possibilità. Ma si deve guadagnare questo tempo, e vale pure un po’ di sacrificio, che alla fine si traduce, in concreto, con regole di buon senso e igiene e una mascherina a coprire naso e bocca. Mentre scienziati in tutto il mondo lavorano e medici e infermieri curano chi si ammala, serve un comportamento responsabile da parte di tutti. Su cosa succederà con il virus, se ci sarà una seconda ondata in autunno e di quali dimensioni, non si possono fare previsioni, nessuno ha la sfera di cristallo. Ma quello che adesso sappiamo del virus ci fa dire che con un po’ di tempo e attenzione possiamo sconfiggerlo”.
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