Dal libro di Silvano Petrosino “Lo scandalo dell’imprevedibile”, su “La Verità” del 7 maggio 2020
Se dovesse in modo diretto e sintetico indicare l’aspetto più rilevante dell’epidemia che ci ha colpito quale termine utilizzerebbe?
Non riesco a pensare a nulla di più appropriato del termine “imprevedibile”. L’epidemia che ci ha colpito si è manifestata con la violenza dell’imprevedibile, è stata una vera e propria irruzione dell’imprevedibile. Certo, non avevamo bisogno di questa tragica lezione per sapere che la nostra vita è continuamente attraversata dall’imprevedibile: l”infarto ci colpìsce spesso all’improvviso, così come la foratura dello pneumatico dell’autovettura che ci porta al posto di lavoro avviene senza alcun preavviso; ci sono poi i terremoti, le alluvioni e gli infiniti incidenti più o meno gravi, che affollano la quotidianità di ogni essere umano. Ma tutti questi eventi, proprio perché più o meno frequenti, sono degli imprevisti in qualche modo previsti, sono degli “imprevisti previsti” che in una certa misura fanno parte della contabilità che governa le nostre esistenze; in altre parole, come non a caso si usa dire, essi “sono messi in conto”. Ma, a eccezione forse di alcuni virologi, per la stragrande maggioranza delle persone l”epidemia ha colpito come un evento del tutto e da tutti inatteso; inoltre – e questo neppure i virologi sono riusciti a prevederlo – essa si è sviluppata e poi diffusa non nel terzo e quarto mondo, o nelle periferie degradate delle megalopoli dell’America latina, e neppure in alcune città del nostro stesso Paese in cui le condizioni igieniche e la raccolta dei rifiuti sono ancora lontano dalla normalità, ma nel ‘”primo mondo, in grandi nazioni tecnologicamente avanzate ed economicamente solide, in Cina e poi in Italia, più precisamente nel Nord ricco e industrioso, e infine in tutta Europa e poi nel mondo intero.
Vorrei invitarla a esaminare una questione complessa che tuttavia non si può evitare di affrontare; mi riferisco al ruolo svolto in questa dolorosa vicenda dalla scienza.
Questo tema è davvero molto complesso e non può essere adeguatamente trattato in questa sede. Tuttavia su almeno almeno due suoi aspetti è possibile avanzare alcune brevi considerazioni. Bisognerebbe prima di tutto distinguere la “scienza” dalla “immagine (mediatica e non solo) della scienza”. All’interno della nostra cultura la scienza – il che vuole dire: il suo modo di ragionare, i termini che essa utilizza, l’immaginario che essa mette in scena, eccetera – svolge un ruolo cosi importante da risultare esclusivo; essa ha in qualche modo finito per assorbire in sé stessa ogni pretesa di verità e di certezza: all’interno del comune sentire la verità vera (scusi la formula), la verità più autentica, quella più potente ed efficace, è in ultima istanza quella scientifica. Aldi fuori di essa vi sarebbero solo dei pareri, delle delle fedi, un universo simbolico ricco e dal punto di vista antropologico certamente rilevante ma non per questo oggettivo, certo, sicuro, vale a dire, per l’appunto, vero. La scienza autentica è abitata da dubbi, incertezze, perplessità, correzioni, eccetera, ma tutto questo travaglio è assente dall”immagine della scienza che alimenta il comune sentire. Di fronte a un’epidemia non si può far altro che lottare con gli strumenti della scienza, ma l’immagine della scienza ha finito per alimentare nelle persone delle aspettative a cui la scienza, come dovrebbe essere ovvio, non ha potuto rispondere. Si è trattato di un’autentica attesa salvifica: come mai la scienza, questa assoluta protagonista all”interno del nostro potente primo mondo, non ha risolto subito la tragedia? Come mai non l’ha neppure prevista? Come mai, noi cittadini del potente primo mondo, abbiamo dovuto vivere nell’incertezza cosi a lungo?
In secondo luogo bisognerebbe distinguere la “scienza” dagli “scienziati”‘. Da questo punto di vista la raccolta, l’elaborazione e l’interpretazione dei dati epidemiologici da parte degli scienziati hanno messo in luce un’incertezza – in verità a mio modesto avviso molto interessante e preziosa – che il sentire comune non si attendeva da quella immagine della scienza che oggi rassicura il vissuto di tante persone. Se la sola verità certa è quella della scienza, come mai gli scienziati si dimostrano così incerti, cosi perplessi, così in contrasto tra di loro, così timidi nel dire quando comincerà una cosa e terminerà l’altra? Chi, dunque, ci potrà mai almeno un po’ rassicurare se non proprio salvare? Questi scienziati, infatti, smentendo l’immagine della scienza di cui parlavo, si sono comportati come gli altri uomini di cultura, hanno confermato che non tutto si può prevedere, che c’è un avvenire al di là del futuro, che c”è sempre qualcosa che non funziona, un resto che non si riesce in alcun modo a contabilizzare. Ci si dovrebbe dunque interrogare con maggiore attenzione e serietà su rapporti che intercorrono tra la scienza e l’immagine della scienza, evitando ad esempio di liquidare frettolosamente (magari accusando subito la stampa, i giornalisti e più in generale il mondo dei media) la questione relativa a una eventuale responsabilità della scienza stessa nei confronti della costruzione di quella immagine cosi favorevole e potente che non a caso le garantisce un ruolo sociale di assoluta rilevanza.
Percepisco nelle sue parole una sorta di presa di distanza nei confronti della «scienza» o, se preferisce, di una certa “immagine della scienza”. Eppure [ … ] di fronte a un’epidemia come quella che ci ha colpito chi ci poteva e ci può ancora aiutare se non la scienza?
Mi dispiace di averle dato questa impressione. Alla scienza non ci si deve opporre, anche perché sarebbe semplicemente una follia il farlo; sono soprattutto gli scienziati, i medici e gli infermieri che lottano contro il diffondersi di un’epidemia, e il loro operato non può essere sostituito da niente e da nessuno. Per fortuna, dunque, c’è la scienza; per fortuna il sapere scientifico progredisce e ci viene di continuo in aiuto. In quel magnifico testo che Céline dedica al dottor Semmelweis e a un’altra epidemia, quella della febbre puerperale, lo scrittore francese scrive: “Non credete a quei poeti che vanno lamentandosi contro i rigori e le costrizioni del pensiero o che maledicono le catene materiali con cui pretendono venga intralciato il loro mirabile slancio verso il cielo dei puri spiriti! Beati incoscienti! Pretenziosi ingrati, in verità, che non concepiscono altro che un grazioso cantuccio di quell’assoluta libertà che pretendono di desiderare!”. Riconosciuto questo, bisognerebbe tuttavia anche evitare, così almeno a me sembra, di trasformare lo stesso termine scienza in una sorta di “parola magica” in grado di leggere, interpretare e risolvere, prima o poi, sempre tutto, come se al di fuori della razionalità strettamente scientifica si agitassero solo ‘”‘pulsioni incontrollate, illusioni e nuvole”. Vi sono aspetti della vita dell’uomo, aspetti essenziali della sua esperienza umana, che oppongono un’evidente resistenza a una loro lettura e interpretazione in termini strettamente scientifici. Poco più sopra ho parlato della verità; ecco, ci si potrebbe chiedere, ad esempio, se sia possibile risolvere nella sola ‘”certezza”, in quella che viene anche definita la pura obiettività, il senso che la parola verità continua a fecondare all’interno del vissuto umano. Sempre Céline – e questo èsolo un altro esempio – a proposito del metodo sperimentale che è il cuore stesso della scienza così come noi la concepiamo, osserva: “Un metodo sperimentale non è che una tecnica infinitamente preziosa, ma deprimente. Esso richiede dal ricercatore un sovrappiù di fervore per non crollare prima di raggiungere il suo scopo, su quello spoglio sentiero che bisogna percorrere accompagnati appunto dal metodo. L’uomo è un essere sentimentale. Senza sentimento, niente grandi creazioni, e l’entusiasmo si esaurisce rapidamente nella maggior parte degli uomini, a mano a mano che si allontanano dal loro sogno”.
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