di Claudia Torrisi, su “Valigia Blu” del 24 marzo 2020 – LINK
In questo momento la copertura mediatica mondiale è concentrata sulla diffusione del nuovo Coronavirus (SARS-CoV-2). Fare informazione in un momento difficile e pieno di incertezza come questo presenta grandi difficoltà per i giornalisti, che hanno la responsabilità di coprire l'evoluzione dell'emergenza sanitaria in maniera corretta, aggiornata e verificata, usando toni che non generino il panico tra i lettori ma che al contempo non sminuiscano la gravità della situazione. Il rischio in questi casi non è solo quello di amplificare la disinformazione, ma anche di alimentare la paura.
Il ruolo del giornalismo è cruciale in casi di epidemie (o pandemie, come è stata ormai definita dall’Organizzazione mondiale della sanità quella del nuovo Coronavirus), che, come scrive l’AMA Journal of Ethics, sono crisi che riguardano non lo solo la salute pubblica, ma anche l’informazione.
In questo articolo sono raccolte riflessioni e buone pratiche su come il giornalismo dovrebbe affrontare epidemie e pandemie, come coprire la diffusione del nuovo Coronavirus e consigli per la sicurezza dei reporter.
Giornalismo, epidemie e pandemie
Nel 2003 la giornalista Helen Branswell si è ritrovata a coprire la diffusione a Toronto dell’epidemia di SARS. La reporter si è poi specializzata in temi riguardanti la salute, e nel 2017 ha stilato una serie di consigli per giornalisti che devono coprire epidemie o pandemie di malattie infettive.
La prima cosa da tenere a mente è che le informazioni possono modificarsi nel tempo. «All’inizio di un’epidemia non tutto è conosciuto, e le persone devono capire che se le informazioni che ricevono cambiano, non è necessariamente perché gli si stava nascondendo qualcosa. È perché con il tempo si sa di più», dice Branswell. Questa consapevolezza dovrebbero acquisirla anche i giornalisti: «Devono sapere che le conoscenze che hanno [sull’epidemia] possono cambiare, devono essere pronti a questi cambiamenti e includerli nel lavoro giornalistico».
A prescindere dalla malattia in questione è una buona idea familiarizzare con l’epidemiologia e le modalità di trasmissione di base delle malattie infettive, comprendere il significato di concetti chiave come “periodo di incubazione” o trasmissione diretta o indiretta. Questa consapevolezza operativa di base è utile anche in caso di epidemie sconosciute, dal momento che le malattie infettive tendenzialmente seguono degli schemi.
Conoscere i modelli di trasmissione aiuta a comunicare al pubblico il rischio di un’epidemia, mentre sapere quali sono i fondamentali dell’epidemiologia è d’aiuto nella preparazione delle interviste per renderle più precise e mirate.
A proposito di queste ultime, un consiglio di Branswell è di controllare che gli esperti da sentire lo siano davvero, magari incrociando le loro risposte con quelle di altri, dal momento che, avverte la giornalista, durante le epidemie vengono fuori moltissimi wannabe experts. Per iniziare a scegliere bene i propri contatti, Branswell suggerisce di partire da epidemiologi e specialisti delle malattie infettive, e anche antropologi, che possono mettere in luce altri aspetti da un punto di vista del contesto culturale.
In un articolo pubblicato sul blog Scientific American, Bill Hanage e Marc Lipstich, entrambi professori di epidemiologia alla Harvard T.H. Chan School of Public Health, scrivono che emergenze come quella della pandemia del Coronavirus portano grosse pressioni sia su scienziati che giornalisti, che vogliono essere i primi ad avere le notizie. Il rischio è quello di accettare standard giornalistici più bassi per avere facili “ricompense” in termini di attenzione, contribuendo alla diffusione di informazioni non accurate (quando non false) o di non correggerle rapidamente. “Abbiamo la responsabilità comune di proteggere la salute pubblica”, affermano i due scienziati, “il virus non legge gli articoli di giornale e non gli importa di Twitter”.
Buon giornalismo e scienza devono distinguere fonti legittime di informazione da voci di corridoio, mezze verità, propaganda. Un compito che, nel mezzo di una pandemia, può diventare arduo. Per aiutare i giornalisti, Hanage e Lipstich hanno distinto tre livelli di informazione: a) cosa sappiamo essere vero; b) cosa pensiamo sia vero (valutazioni basate su fatti, sulla loro estrapolazione o sulla loro interpretazione che riflette il punto di vista di un individuo su quello che è probabile che accada); c) opinioni e ipotesi.
Nel primo gruppo ci sono i fatti. Ad esempio: l’infezione è causata da un beta-coronavirus, le sequenze iniziali del genoma virale del virus erano molto simili, la trasmissione tra gli esseri umani è molto frequente. “Ci sono molti elementi a sostegno di queste circostanze, compresi studi scientifici e report di autorità sanitarie pubbliche”.
Nella categoria b) rientra la “maggior parte delle cose che vorremmo sapere sull’epidemia ma non sappiamo perché non esistono dati sistematici sul reale numero di casi in tutti i paesi; l’estensione della trasmissione comunitaria fuori dalla Cina – o la frazione di casi che si stanno diffondendo senza essere rilevati; la reale proporzione di infetti con lievi sintomi, asintomatici; e il grado di trasmissione dei casi pre-sintomatici”. Su questo tipo di argomenti, secondo i professori, gli esperti possono dare delle opinioni basate sulla loro conoscenza di altre malattie infettive, dedurre conseguenze dai dati disponibili o magari riferire informazioni di cui hanno sentito parlare e di cui si fidano ma che non sono state ancora rese pubbliche (ad esempio le probabili traiettorie a lungo termine dell’epidemia). “Queste opinioni beneficiano del giudizio esperto degli scienziati e sono degne di essere riportate, ma dovrebbero essere distinte dai fatti concreti”.
Nell’ultima categoria, infine, rientrano molte altre tematiche per le quali ad oggi le evidenze sono estremamente limitate. Ci sono poi interrogativi che non saranno mai davvero risolti dai dati, come quelli riguardanti le motivazioni che spingono le azioni di governi e autorità sanitarie. “Non significa che questi temi non siano importanti, solo che al momento non sono accessibili per la scienza – e forse non lo saranno mai”.
Buone pratiche generali vengono da giornalisti che nel corso della loro carriera si sono occupati di questioni di salute pubblica ed epidemie. John Pope, reporter che da vent’anni copre questi argomenti, ha stilato una lista di consigli su ciò che ha imparato occupandosi di influenza suina, che possono essere validi anche per COVID-19. Ad esempio, l’importanza di attenersi innanzitutto ai fatti, di comunicare in maniera semplice e concisa, mettere enfasi sulla prevenzione e fare attenzione al linguaggio. Altri suggerimenti da parte di giornalisti che hanno coperto epidemie e malattie infettive comprendono focalizzarsi sul giornalismo e non sull’analisi; fare attenzione ai titoli; evitare stereotipi razzisti; porsi dei limiti e, talvolta, dire “no” al proprio editor.
COVID-19, infodemia e fact-checking
Il 15 febbraio il direttore generale dell’Oms, Tedros Adhanom Ghebreyesus, ha detto che contro il nuovo Coronavirus non stiamo «combattendo solo un’epidemia, stiamo combattendo anche un’infodemia». Con il termine, secondo la definizione della Treccani, si intende la “circolazione di una quantità eccessiva di informazioni, talvolta non vagliate con accuratezza, che rendono difficile orientarsi su un determinato argomento per la difficoltà di individuare fonti affidabili”.
In queste settimane notizie false, immagini decontestualizzate (come il video dei cittadini cinesi che “cadono a terra colpiti dal morbo”) e teorie del complotto sul nuovo Coronavirus sono circolate online sui social e spesso sono state riprese dai media mainstream. È il caso della tesi secondo cui il virus sarebbe stato creato in un laboratorio militare, rilanciata su Tgcom24.
In un articolo uscito su Poynter a febbraio, si legge che in almeno cinque paesi – tra cui USA, India, Indonesia, Ghana e Kenya – era circolata la notizia (falsa) secondo cui il governo cinese si era rivolto alla Corte Suprema per richiedere l’autorizzazione a uccidere 20 mila persone malate di COVID-19.
Ci sono diverse iniziative internazionali di fact-checking nate per combattere il diffondersi di teorie complottiste e notizie non verificate sul Coronavirus. Ad esempio, come riporta una guida pubblicata dal Global Investigative Journalism Network (GIJN), l’OMS ha una pagina “Myth Busters” dove debunka miti sul Coronavirus con materiale condivisibile da tutti gli utenti, inclusi giornalisti e media e AFP ha promosso un’iniziativa simile. L’International Fact-Checking Network, che comprende 90 fact-checker provenienti da 39 paesi, ha lanciato due hashtag (#CoronaVirusFacts and #DatosCoronaVirus) e usa tool come Google Docs, Sheets e Slack per condividere link di notizie false o debunking già pubblicati affinché i giornalisti possano tradurli nelle loro lingue e adattarli ai loro contesti locali.
Altri progetti di questo tipo sono elencati in questo articolo dell’European Journalism Observatory, che fornisce anche dei consigli e strumenti per giornalisti che si trovano ad affrontare il marasma di informazioni su Coronavirus:
- verificare se esiste già fact-checking su una determinata notizia;
- essere scettici riguardo foto e video – e verificarne la provenienza, attraverso tool per la ricerca di immagini e anche la geolocalizzazione;
- controllare sempre le fonti ufficiali.
“Ci sono molti giornali nel mondo che non dispongono di team per il fact-checking o di una persona con capacità di debunking”, si legge su GIJN. “Se trovi bufale o informazioni sospette, contatta gruppi di fact-checking consolidati e credibili. Solitamente sono attivi sui social media”.
L’uso dei dati su contagi e decessi da nuovo Coronavirus
Talvolta, scrive Jon Allsop su Columbia Journalism Review, anche le informazioni ufficiali sul virus possono essere fuorvianti, se non riportate insieme al contesto adeguato. “Al momento, nel mondo i media sono inondati da dati in continua evoluzione su casi confermati e tassi di letalità. Spesso, tali cifre sono presentate con una tale certezza che tralascia ciò che non possono dirci: che i tassi di letalità non tengono conto delle persone che contraggono il virus ma hanno così pochi sintomi che non se ne accorgono o non lo segnalano; che il numero dei casi in un dato luogo riflette non solo la diffusione del virus, ma anche l’attitudine delle autorità locali a effettuare test. I giornalisti possono comprendere implicitamente questi limiti, ma non dovremmo supporre che i lettori facciano altrettanto”. Le persone, come ha puntualizzato recentemente Alexis C. Madrigal su The Atlantic, hanno fiducia nei dati, nei numeri, nei grafici, ma i dati non riflettono sempre accuratamente lo stato delle cose.
Caroline Chen, giornalista che scrive di salute per ProPublica e che a 13 anni ha vissuto l’epidemia di SARS a Hong Kong e che poi come reporter ha coperto quelle di Ebola e Zika, ha pubblicato un articolo evidenziando alcuni punti su cui gli operatori dei media dovrebbero focalizzarsi nell’affrontare la pandemia di nuovo Coronavirus. Ad esempio, quando si parla di tasso di mortalità, Chen consiglia di usare frasi come “gli scienziati stimano sia intorno a…, basandosi sulle informazioni in loro possesso” in modo che i lettori comprendano che non si tratta di un punto fermo.
Allo stesso modo, cautela andrebbe usata anche quando si parla di proiezioni sul contagio. Invece di chiedere a un esperto “quanti casi ci saranno in questo momento X?”, i giornalisti dovrebbero porre la domanda su quali ipotesi sono state utilizzate per calcolare la previsione, e qual è il range maggiore o minore. Infine, Chen scrive che in questo ambito le cose cambiano velocemente, “anche più del normale”: “Ho fatto interviste dove le informazioni che mi venivano date diventavano obsolete 12 ore dopo. Questo è ovviamente terribile per una giornalista. Per questo motivo sto facendo del mio meglio per inserire nei pezzi accanto a fatti e stime informazioni che diano un riferimento temporale, come ad esempio ‘a mercoledì mattina’, e sto chiedendo alle mie fonti di aggiornarmi il più spesso possibile”.
Giornalismo responsabile per affrontare l’epidemia
Karin Wahl-Jorgensen, docente della scuola di giornalismo dell’università di Cardiff, ritiene che nella copertura mediatica dell’epidemia di Coronavirus la paura abbia giocato un ruolo particolare – così come in altre situazioni simili come ad esempio la diffusione della SARS nel 2003.
La professoressa ha analizzato la copertura su COVID-19 da parte di 100 pubblicazioni in lingua inglese di tutto il mondo. Un articolo su nove sull’epidemia menzionava la parola “paura” o simili. Negli articoli, scrive su NiemanLab, viene usato un linguaggio che richiama terrore, come ad esempio la locuzione “virus killer”.
I media, secondo Wahl-Jorgensen, stabiliscono l’agenda del dibattito pubblico, “non ci dicono necessariamente cosa pensare, ma ci dicono a cosa pensare”, dove posare maggiormente la nostra attenzione. La paura, così come altre emozioni, è contagiosa e può trasmettersi velocemente, veicolando allo stesso tempo informazioni false o non verificate.
Al Tompkins su Poynter ha notato la stessa tendenza all’utilizzo del registro linguistico della “paura” e sostiene che l’unico modo per fornire una copertura approfondita e bilanciata della diffusione del nuovo Coronavirus senza diffondere panico è attenersi a un modello di giornalismo responsabile. Ad esempio limitando gli aggettivi: non è necessario accompagnare nei pezzi la parola virus con aggettivi come “mortale” o simili. “La mia raccomandazione generale è che più la situazione si fa brutta, più i giornalisti dovrebbero limitare gli aggettivi. Ormai le persone sanno che si tratta di una questione seria. Atteniamoci ai fatti”.
Anche le immagini vanno scelte con cura. Tompkins ritene che l’ideale sarebbe, ogni volta che si mostra una foto con una persona con una mascherina, ricordare ai lettori che gli esperti dicono che queste non prevengono la diffusione del virus. “È facile immaginare che il pubblico sia confuso riguardo alle mascherine. In Cina il governo obbligava la popolazione a metterle, medici e infermieri le indossano. È comprensibile che le persone pensino che avere una mascherina possa essere in qualche modo rilevante”.
First Draft ha pubblicato una serie di consigli utili e schematici per un “giornalismo responsabile” su COVID-19, compilati grazie a interviste a reporter che si occupano di salute e scienza, professionisti della salute, professori di giornalismo e altri materiali. Sono riportati qui di seguito, arricchiti da altri spunti e riflessioni.
1) Evita l’utilizzo di un linguaggio sensazionalistico. Parole e locuzioni come “non se ne vede la fine”, “killer”, “catastrofe” possono portare facili clic alla testata, ma il rischio è quello di contribuire alla diffusione di un senso di panico crescente. Le autorità sanitarie, gli epidemiologi e i virologi raccomandano l’esatto contrario: bisogna mantenere la calma. Secondo la professoressa Wahl-Jorgensen, i giornalisti devono riconoscere la loro responsabilità nel gestire le emozioni dei lettori, e non diffondere paura.
“Non inducete in errore i lettori con i vostri titoli. Con una grande quantità di informazioni in giro, e il ritmo veloce dei social media, molte persone traggono le notizie solo dai titoli. Anche se volete essere accattivanti, non sacrificate i fatti per i clic – non fatelo mai, ma soprattutto nel mezzo di una crisi”, spiega un pezzo su International Journalism Network
2) Fai attenzione alle immagini. Riflettere attentamente su ogni foto, sull’impatto che può avere e fornire contesto. Nelle scorse settimane c’è stata una proliferazione di immagini provenienti dalla Cina, come quella raffigurante un uomo senza vita disteso in strada a Wuhan circondato da personale sanitario. La foto è stata spesso accompagnata con didascalie che facevano riferimento al Coronavirus, anche se non c’era nessuna prova che l’uomo fosse effettivamente morto per quel motivo. Il racconto visivo in tempo di crisi, si legge IJNet, “è prezioso, ma deve essere fatto in maniera responsabile. I giornalisti devono assicurarsi che le loro foto ritraggano accuratamente cosa sta succedendo. Foto sensazionalistiche danno un’informazione non accurata e possono generare panico”. Prima di iniziare a fotografare – o scrivere – “guardati intorno, parla con le persone e fatti un’idea del mood sul campo e poi trasmettilo nel tuo lavoro, evitando contenuti che possano contraddire quello che le persone stanno davvero vivendo”.
Un’altra cosa da evitare sono le immagini di stock che possono perpetuare stereotipi. Un esempio è l’utilizzo smodato di foto di persone asiatiche che indossano mascherine anche quando non si parla di Asia o dell’efficacia dei dispositivi individuali. In proposito l’Asian American Journalists Association ha pubblicato una guida per evitare di alimentare razzismo e xenofobia. Le immagini non devono nemmeno veicolare panico immotivato – come foto di ambulanze in attesa davanti alle abitazioni.
3) Evita di speculare o chiedere agli esperti di speculare sugli scenari peggiori. Non aiuta i lettori, e, dice Wahl-Jorgensen bisognerebbe focalizzarsi su quello che si sa.
4) Riferisci ai lettori le raccomandazioni specifiche su come comportarsi. Secondo la professoressa di giornalismo dell’Università del Minnesota Emily Varga, l’incertezza ci rende vulnerabili alla disinformazione. Per questo raccomanda ai giornalisti di mettere in evidenza azioni concrete approvate da esperti che la gente può mettere in atto per limitare la diffusione del virus, per restituire ai lettori un senso di controllo su quanto sta accadendo.
5) Indirizza i lettori verso fonti ufficiali di informazione.
6) Fai attenzione alle ricerche utilizzate. Dallo scoppio dell’epidemia, c’è stata una proliferazione di documenti scientifici non ancora sottoposti a peer review o approvati. Alcuni possono essere utili, altri possono promuovere informazioni che non andrebbero diffuse.
7) Rivolgiti a più di un esperto. Come suggerisce la guida di GIJN, ricercatori o medici specializzati su COVID-19 non sono facili da trovare, dal momento che il virus è nuovo e imprevedibile. Quando si selezionano gli esperti da sentire, si possono tenere in considerazione cinque suggerimenti del professore Hanage, docente di epidemiologia ad Harvard: a) fare attenzione nelle scelta degli esperti, l’aver ricevuto il premio Nobel in una materia scientifica o avere un dottorato o una cattedra non fa di una persona un’autorità su tutte le questioni di scienza; b) distinguere tra ciò che è certamente vero, cosa si pensa che lo sia e cosa sono solo opinioni; c) usare cautela quando si citano studi ancora non pubblicati; d) chiedere aiuto agli accademici per valutare la validità di nuove teorie o affermazioni; e) leggere il lavoro di giornalisti scientifici con esperienza.
8) Non tutte le indiscrezioni meritano copertura. Secondo la guida bisognerebbe evitare ad esempio di attirare l’attenzione su voci e bufale che circolano solo in piccoli gruppi o non hanno grande diffusione. Il risultato a volte è solo dargli più risalto di quanto ne avessero prima – e farle circolare di più.
9) Se decidi di debunkare un’indiscrezione, focalizzarsi sui fatti, in particolare nel titolo e nei tweet. L’obiettivo è evitare di amplificare la notizia falsa o non verificata, e non trarre in inganno i lettori che, ad esempio, leggono solo il titolo o i tweet di accompagnamento.
First Draft consiglia di utilizzare nel corpo del testo la tecnica truth sandwich di George Lakoff: iniziare con la verità, indicare la bugia (evitando di utilizzare lo stesso linguaggio della notizia falsa) e tornare alla verità. Partire con la menzogna prima di far notare la sua falsità, scrivono due ricercatori della School of Psychology della University of Western Australia, può “aumentare potenzialmente il rischio che le idee sbagliate vengano in seguito erroneamente ricordate come vere”.
10) Rendi le informazioni complesse più semplici da capire. I dati di fatto vanno messi in evidenza e resi agilmente comprensibili: “Il nostro cervello fa fatica a capire cosa è vero e cosa è falso, in particolare quando scrolliamo velocemente”.
11) Evita un linguaggio arrogante. Le paure delle persone riguardo al virus sono reali, anche se alcune teorie sono sbagliate. Ridicolizzare le false speranze dei lettori può allontanarli, o fargli credere ancora di più nelle loro convinzioni. L’ansia è una reazione più che normale in condizioni di incertezza, e i giornalisti dovrebbero rispondere con un atteggiamento empatico più che giudicante.
12) Cerca di capire i dubbi dei lettori e rispondi alle loro domande.
13) Nei dati e nelle mappe, includi sempre la fonte dei dati, la data e il contesto.
Quando si fa un reportage sul campo, inoltre, sarebbe opportuno parlare con più persone possibile o comunque con individui di diversa estrazione. Il virus, infatti, si è diffuso in paesi, città, classi sociali differenti. “L’esperienza delle persone colpite in Cina – si legge su IJNet – non è la stessa di quelle che vivono a Singapore, che a sua volta non sarà uguale a quella degli italiani. E anche all’interno di uno stesso paese esistono molte differenze”. Non è detto che le persone in lockdown affrontino l’esperienza tutte allo stesso modo, e per questo i giornalisti hanno la responsabilità di “fare del loro meglio nel cogliere le diverse realtà”, allargando la rete a diverse fonti e classi sociali anche all’interno di una sola città.
Diversi reporter cinesi intervistati da GIJN ritengono che aver avuto colloqui informali con medici, volontari e residenti li abbia aiutati nel loro lavoro, consentendogli di venire a conoscenza di nuove storie e possibili persone da intervistare.
Una questione a parte merita la copertura di storie di persone che sono sopravvissute alla malattia, che hanno scoperto di essere contagiate, che hanno perso qualcuno a loro caro, che attendono notizie da un ricovero o che comunque hanno subito un trauma in seguito all’epidemia.
“Abbiamo sempre bisogno di trovare volti umani, visitare case e luoghi di lavoro e fare alle persone domande difficili per i nostri articoli”, si legge su GIJN. Ma in un’epidemia come quella a cui stiamo assistendo in questi giorni, spesso “le vittime hanno subito traumi. Potrebbero non voler essere identificate e parlare dell’infezione. Anche solo menzionare il luogo dove vive quella persona può causare panico in quella comunità, provocando insicurezza per lei e la sua famiglia”.
Secondo la giornalista cinese Wu Jing di Health Insight, considerato che il diffondersi della malattia è fonte di un grande stress per la popolazione, è importante mostrare empatia nei confronti di coloro che accettano di essere intervistati, offrendo loro dispositivi di protezione come mascherine chirurgiche o disinfettante, e aiutandoli a mettersi in contatto con qualche organizzazione qualora ne avessero bisogno. Mostrare gentilezza pone le basi per un rapporto di fiducia reciproca, aiutando le persone ad aprirsi. I giornalisti dovrebbero anche essere preparati alla possibilità che l’interlocutore possa declinare di rilasciare l’intervista o evitare di rispondere a chiamate o messaggi.
Il Dart Center for Journalism & Trauma ha messo insieme una lista di risorse utili per i giornalisti che si occupano di COVID-19. Tra queste ci sono anche consigli e guide da parte di esperti nelle interviste a persone esposte a eventi traumatici. Il principio che dovrebbe guidare i giornalisti dovrebbe essere quello di non danneggiare ulteriormente o provocare altro dolore alle persone che si è scelto di raccontare o con cui si sta avendo una conversazione.
Tra i consigli proposti dal Dart Center:
a) Tratta gli intervistati sempre con dignità e rispetto – così come vorresti essere trattato tu in una situazione simile. “I giornalisti cercano sempre di entrare in contatto con i sopravvissuti a tragedie o eventi traumatici, ma dovrebbero farlo con sensibilità, e dovrebbero capire quando e come farsi da parte;
b) Identificati chiaramente: chi sei, dove scrivi/lavori e per quale motivo stai contattando quella persona. Chiedi il consenso informato su come identificherai quella persona nel pezzo che pubblicherai;
c) Non partire con una raffica di domande “difficili”, sii empatico e ascolta. “Metti l’umanità prima della storia, la priorità deve essere il benessere della persona, la storia viene dopo”;
d) Sii sempre accurato. Se stai scrivendo un pezzo controlla con la persona in questione – o i suoi parenti, nel caso si tratti di un malato o qualcuno che è morto – lo spelling del nome, i fatti che riporti e anche i virgolettati;
e) Evita dettagli non necessari sulla morte.
Altre risorse utili sul coprire eventi traumatici si trovano sul sito del Center for Health Journalism.
La sicurezza fisica e psichica dei giornalisti che coprono COVID-19
Commitee to Protect Journalists (CPJ) ha pubblicato una serie di informazioni utili per garantire la sicurezza dei giornalisti che stanno coprendo l’epidemia di COVID-19 (o che intendono farlo), avvertendo che “la situazione cambia velocemente in tutto il mondo in maniera improvvisa”.
Tra i consigli prima di programmare il viaggio considerare travel ban o difficoltà di movimento previste in diversi paesi – e all’interno di questi – dalle ultime misure per fronteggiare l’epidemia. E avere un piano d’emergenza nel caso in cui una città o una regione venisse messa improvvisamente in quarantena o lockdown. In ogni caso, non viaggiare se ammalati e portare con sé documentazione medica se richiesto.
Per preservare la propria salute, i giornalisti devono tenere presente le norme di distanziamento sociale. “Se si visita una struttura sanitaria, una casa di cura per anziani, una zona di quarantena o altro, chiedete delle misure igieniche che sono state prese. Se ci sono dubbi, non andate”.
Le precauzioni standard sono: evitare contatti ravvicinati con chiunque (in particolare con chi mostra sintomi di malattie respiratorie) e coprire sempre naso e bocca quando si starnutisce o tossisce; evitare mezzi pubblici; mantenere distanze di sicurezza quando si intervista qualcuno; utilizzare microfoni direzionali a distanza (alcuni reporter in aree a rischio lavano ogni giorno le spugne dei microfoni); lavare le mani regolarmente, usare gel anti-batterico quando non è possibile farlo con acqua e sapone; usare guanti protettivi se si lavora in siti infetti (o altre protezioni se si va ad esempio in alcune aree di ospedali); pulire e disinfettare l’attrezzatura al rientro da aree a rischio; se si sviluppano sintomi, rivolgersi a un medico; seguire sempre le istruzioni delle autorità sanitarie locali.
Un team di undici giornalisti ha lavorato insieme per creare la “Newsroom Guide to COVID-19”. “L’obiettivo di questo documento è quello di aiutare le redazioni a fornire linee guida chiare e utili ai loro reporter ed editor durante un periodo in cui mancano istruzioni ufficiali su come rispondere al meglio alla pandemia del nuovo Coronavirus”, si legge nella guida, che avverte di non fornire consigli medici, ma di voler agevolare la creazione di un ambiente in cui le redazioni possano affrontare meglio questo momento di incertezza.
Un argomento poco affrontato – specialmente in Italia – riguarda la salute psichica dei giornalisti che si occupano di COVID-19. La pandemia provoca ansia su chiunque: reporter, ricercatori, analisti possono sentire il peso del sovraccarico di informazioni.
Al Tompkins scrive su Poynter che molti giornalisti sono stressati da questa copertura no-stop dell’epidemia, passando tutto il giorno a parlare con esperti che avvertono che il peggio deve ancora arrivare o con persone preoccupate per se stesse e per le loro famiglie.
Secondo Bruce Shapiro, direttore esecutivo del Dart Center for Journalism and Trauma, coprire giornalisticamente una pandemia provoca una fortissima pressione psicologica: oltre alla pesantezza della storia in sé, i giornalisti intervistano le famiglie sopravvissute, vedono le foto delle vittime, maneggiano dati angoscianti. I giornalisti, aggiunge, il più delle volte riescono ad affrontare il trauma, ma sono comunque esposti al rischio di sviluppare problemi psichici.
Per questa ragione, i reporter devono prendere delle precauzioni per preservare la propria salute mentale quando si occupano di storie con una forte carica emotiva come può essere una pandemia. Di seguito alcuni consigli utili di First Draft.
1) Affronta lo stigma. Il “trauma vicario” – l’esposizione indiretta a un evento traumatico altrui che però causa un cambiamento in negativo in chi soccorre o assiste – è comune tra i giornalisti che si occupano di tragedie, e casi di stress post-traumatico sono più numerosi tra i reporter che nel resto della popolazione. Il giornalismo, però, a differenza di altre categorie professionali è in ritardo nel discutere e riconoscere le questioni di salute mentale che lo accompagnano. Su queste tematiche persiste uno stigma che spesso porta a non riconoscere il problema, e a confondere trauma, burnout e depressione per mancanza di competenza professionale. I reporter dovrebbero sapere che il loro lavoro può avere un effetto su di loro e sulla loro psiche, e che questo è perfettamente normale.
2) Separa lavoro e vita personale. Gli esperti consigliano a coloro che soffrono di ansia in questo momento particolare di disconnettersi dalle news. È un’operazione quasi impossibile per i giornalisti, che però possono tracciare una linea di demarcazione tra lavoro e vita personale: individuare dei momenti in cui sono vietate discussioni sul lavoro o sul virus quando si è con la famiglia o gli amici; limitare i contenuti su COVID-19 fuori dalle ore di lavoro, riducendo le notifiche delle breaking news (scegliendo solo una testata magari) ed evitando newsletter con toni ansiogeni.
3) Attieniti alle linee guida ufficiali. Le persone che regolarmente hanno problemi di salute mentale sono più vulnerabili durante le emergenze. Lo stesso accade a giornalisti che soffrono di ansia – anche ansia per la propria salute, disturbi ossessivo compulsivi o stress lavorativo – quando si occupano di coprire le notizie sul virus. È importante seguire i consigli ufficiali per proteggere se stessi e gli altri dal virus, senza andare oltre. Conoscere i fatti, ma senza ossessionarsi su sintomi o precauzioni.
4) Senti regolarmente i colleghi. Con il distanziamento sociale, molte redazioni si sono convertite al lavoro da remoto. Questo, scrive First Draft, “può significare che i giornalisti siano più a rischio di isolamento in un momento in cui molti sentono di lavorare di più”. Secondo Shapiro, «l’isolamento sociale è uno dei fattori di rischio per il disagio psichico, mentre connessione sociale e supporto collettivo sono tra i più importanti fattori di resilienza». Parlare con dei colleghi – anche per i freelance – può essere terapeutico.
5) Prenditi cura di te stesso. Sia che si stia occupando del Coronavirus o meno, secondo Shapiro ogni giornalista ha bisogno di prendersi cura di se stesso durante questo periodo: dormire abbastanza, staccare Internet prima di andare a letto, mangiare bene, ritagliarsi degli spazi per leggere, guardare un film. Fuori dal lavoro, il direttore del Dart Center consiglia di fare qualsiasi cosa possa far uscire il Coronavirus dalla propria testa per un po’. Nonostante sia difficile quando si è in presenza di un argomento come questo che domina la maggior parte delle conversazioni, bisognerebbe evitare di parlarne troppo fuori dal lavoro – e, a mali estremi, silenziare chat su Whatsapp quando ci si sente troppo ansiosi o chiudere Twitter. Porre fine alla propria giornata lavorativa con un gesto simbolico, che può essere sciacquarsi la faccia o scrivere una lista delle cose fatte.
6) Conosci cosa ti causa stress e non avere paura di chiedere aiuto. La pandemia di Coronavirus andrà avanti per mesi, per questo bisognerebbe essere consapevoli di cosa provoca stress e, se necessario, rivolgersi a un terapeuta – nonostante sia una cosa ancora avvolta da un certo stigma per i giornalisti. Molte redazioni hanno servizi di consulenza per i dipendenti, ed esistono anche opzioni online per questi tempi di quarantena.
7) Non essere troppo duro con te stesso. In tempi come questi è comune essere spaventati o stressati, è una reazione perfettamente normale considerato che siamo davanti a una crisi senza precedenti.
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