Intervista di Pietro Senaldi a Luciano Gattinoni su “Libero” del 27 aprile 2020 – LINK
«I tedeschi non sono più bravi di noi e lavorano di meno. Però sono organizzati, ognuno fa la sua parte, non si parlano addosso e amano obbedire. Rispettano le regole, avvantaggiati dal fatto che le loro sono chiare, e perciò si possono permettere di più rischiando di meno». Diagnosi del professor Luciano Gattinoni, luminare dell’ anestesia e rianimazione, che infatti lavora a Gottingen, dopo essersi allontanato cinque anni fa dal Policlinico di Milano.
«Qui la Merkel sul Corona virus ha parlato tre volte. La prima per dire che il 70% dei tedeschi si sarebbe ammalato, la seconda per chiudere il Paese, la terza per riaprirlo affermando che, se la situazione peggiorerà nuovamente, farà retromarcia. Poche parole, chiare. Tutto il contrario di quanto avvenuto in Italia». Per questo i tedeschi possono permettersi di andare al fiume a gruppi la domenica, mentre se da noi uno prende il sole senza nessuno intorno nel raggio di mezzo chilometro, il drone lo fotografa e arrivano i carabinieri per fargli la multa. Oggi Berlino riparte, anche se non si è mai fermata in realtà, come dimostra il calo dei consumi elettrici nell’ ultimo mese, solo -4%, contro il -25% italiano. A differenza nostra però, in Germania nessuno incrocia le dita e si raccomanda a Dio. Tantomeno c’ è qualcuno che ha già aperto per i fatti suoi, nel vuoto di indicazioni generali.
Noi ripartiamo sette giorni dopo i tedeschi, ma la sensazione è che non siamo pronti. Lo facciamo un po’ perché dobbiamo, essendo circondati da Stati che tornano a girare a pieno regime, un po’ perché, se dovessimo aspettare di essere pronti, non ripartiremmo mai. «L’ Italia ha 500 esperti e un numero di commissioni ignoto, ma del loro lavoro non traspare nulla. Vive in un perenne talk-show. Manca perfino un’ analisi della situazione che parta dai numeri. Nessuno parla di rischio sostenibile, non avendolo calcolato».
In Italia siamo in troppi a non decidere, professore?
«Se lei mette dieci medici intorno a un malato, questo non ha speranze, muore. Quando lavoravo a Monza, mi portarono il figlio dell’ allora cancelliere tedesco Helmut Kohl. Aveva una difficoltà respiratoria importante, in seguito a un incidente automobilistico. La madre voleva trasportarlo in Germania. Arrivò il padre e mi disse: “Lei è e sarà la sola persona ad avere nelle mani la vita di mio figlio”. Aveva capito che, se lo avesse rimpatriato, in Germania si sarebbe scatenata la competizione tra professori».
Quindi le nostre commissioni sono letali?
«In un gruppo allargato ognuno si sente in dovere di dire una cosa più intelligente di quella che ha appena ascoltato, e finisce con lo spararla grossa. Se ci sono più di cinque o sei persone a decidere, la commissione diventa inutile nel migliore dei casi, dannosa nel più frequente, perché l’ accordo lo si raggiunge sempre al livello più basso».
Professore, abbiamo fatto bene a fare la quarantena più rigida di tutti?
«Se stanno tutti in casa, ci sono meno malati. Ma il virus non scompare. Quando esci, te lo ritrovi e sei daccapo; a meno che nel frattempo non si sia trovato il vaccino».
Quindi la quarantena è stata inutile?
«No, è servita a contenere il contagio e allentare la pressione sugli ospedali. È stata una prevenzione necessaria a non far collassare il sistema. Chi sta a casa però non sviluppa anticorpi, e quando esce non è più al sicuro di prima. Anzi…».
Perché ci sono stati più morti in Italia che in Germania?
«Se il Paese è disorganizzato, non si può pretendere che la sua sanità sia organizzata. Io però farei un’ altra domanda: come mai si è morti così tanto in Italia?».
E come direbbe Marzullo, si dia una risposta, professore
«Per esempio perché l’ Italia ha ignorato l’ allarme lanciato dall’ Organizzazione Mondiale della Sanità tre anni fa, quando il pianeta venne allertato in merito alla probabilità dell’ insorgenza di un’ epidemia nel breve periodo. La Germania comperò mascherine e protezioni sanitarie. Noi, per quanto mi risulta, non abbiamo tenuto in considerazione la segnalazone. D’ altronde, la prevenzione non crea consenso perché ha successo se non accade nulla, ma come fai a rivenderti politicamente il nulla?».
Ma la Lombardia, dove ci sono stati metà dei morti italiani, non è un’ eccellenza medica?
«Per la terapia intensiva sicuramente. È allo stesso livello di Francia e Germania, superiore a Spagna e Regno Unito. Infatti il numero di morti che abbiamo avuto ha fatto scalpore nel mondo della comunità scientifica».
È finito sotto accusa il modello lombardo. Dicono che dia troppo spazio al privato
«Qualcosa non ha funzionato. Sostenere, come fanno le autorità regionali, di non aver sbagliato nulla o che tornando indietro rifarebbero le medesime cose non è molto intelligente. Piaccia o no, i risultati hanno un peso».
Anche lei si scaglia contro la sanità privata lombarda?
«Occhio alla distinzione tra pubblico e privato. Le aziende private si fanno pagare il servizio dalla Regione, e quindi sono anche un po’ pubbliche, mentre negli ospedali pubblici da anni la fanno da padrone i manager, che hanno cominciato a chiamare “aziende” le strutture sanitarie, importando una mentalità di profitto. In questo passaggio si è perso il senso della missione e si è dato via libera ai tagli, che non aiutano, perché peggiorano sia la qualità del servizio sia quella dei medici, che sono oberati di lavoro e non hanno più tempo per studiare e prepararsi. Mi lasci aggiungere che i grandi medici si formano nel pubblico, che un tempo non era ossessionato dalle spese, poi casomai passano al privato».
Il numero chiuso a medicina è stato un errore?
«Rientra nella filosofia dell’ ottimizzare la sanità, slogan politico per giustificare il taglio dei fondi. Un posto di terapia intensiva però non è solo un letto. Sono sette infermieri ogni due pazienti e cinque medici ogni cinque pazienti. E quando parlo di medici, mi riferisco a specialisti che sanno quello che bisogna fare. Solo così si evitano le morti».
Questione di mancata prevenzione e tagli eccessivi se siamo finiti a terra, dunque?
«Le pare poco? Comunque è anche questione di metodo. Se in Germania hai dei sintomi di Covid-19 e vai all’ ospedale, all’ ingresso trovi un grande cartello che ti ordina di non entrare per nessuna ragione e ti invita a suonare un campanello. A quel punto esce un sanitario che ti prende in cura senza che tu metta piede nell’ ospedale e decide se ricoverarti, in strutture riservate ai malati Covid-19, o mandarti a casa, dove viene ordinato al tuo medico curante di assisterti. Mi sembra che in Italia l’ individuazione del virus sia appaltata al paziente, in autodiagnosi da casa, al telefono con il medico del territorio. Sempre meglio comunque di quanto avveniva nei primi tempi, quando i sinotmatici erano accolti in pronto soccorso senza percorsi differenziati».
Come mai ora si muore meno e i malati sono meno gravi: il virus è diventato meno aggressivo?
«Il virus può essersi trasformato, ma noi non lo sappiamo. Certo non muta a seconda dei nostri desideri o umori. La sua forza resta la stessa, cambia la carica virale, e chi è colpito da più molecole contagiose se la passa peggio, e può cambiare la resistenza che incontra. Ecco, non direi che è diventato meno letale, piuttosto che siamo diventati più bravi noi a curarlo. Per le prime tre settimane i medici sono andati avanti a tentoni».
Mi sta dicendo che molta gente morta un mese e mezzo fa oggi si sarebbe potuta salvare?
«Decongestionare gli ospedali è stato fondamentale perché meno pazienti hai, meglio li curi. E poi certo, più conosci la malattia, più la terapia è efficace. Nei primi venti giorni i pazienti arrivavano con insufficienze respiratorie severe e veniva sparata aria nei polmoni a pressione alta. Poi si è scoperto che così la situazione peggiorava. Con il tempo abbiamo anche capito che era fondamentale che il sangue non si coagulasse e abbiamo iniziato a usare con ottimi risultati l’ eparina. E’ un percorso. La scienza procede per tentativi ed errori, e l’ esperienza non è altro che l’ analisi critica dei propri errori».
Quindi oggi sappiamo come curare il Covid-19?
«No, abbiamo imparatocome arginarlo meglio. Ma finché non conosceremo bene tutti i meccanismi di replicazione del virus, non troveremo mai la terapia».
Si dice sparirà con il caldo
«Non ci resta che aspettare. Può darsi che al caldo si trovi peggio che al freddo. Fatto sta che noi nel corpo abbiamo 36-37 gradi, e lui ci sta benissimo».
Quanto dovremo aspettare per il vaccino?
«Questo lo chieda ai virologi».
Colgo un filo di ironia, non li apprezza?
«Quando parlano del loro mestiere dicono cose interessantissime. Se però si allargano e iniziano a fare gli epidemiologi, e poi i rianimatori, i tuttologi e magari anche i politici, fanno scivoloni in abbondanza, come tutti. Ma qui mi fermo, perché non vorrei rientrare nel gruppo».
Ma no professore, giochiamo un po’ ai filosofi, tanto tutti noi comuni mortali riconosciamo al medico il ruolo di santone
«Questo in Italia, dove siamo emotivi. Infatti abbiamo avuto la reazione più irrazionale e meno scientifica di tutti al virus».
Parla della politica e della società, non della scienza?
«Certamente».
L’ epidemia è dolore, va di moda dire che ci renderà migliori. Sottoscrive?
«Bisognerebbe studiare la storia a quarant’ anni, non alle elementari. Ci sono sempre state epidemie, sono sempre passate e l’ animo umano non è mai cambiato. L’ emergenza esalta gli istinti brutali. Buoni e cattivi. Poi quando passa, tutto torna come prima».
Professore, perché fremo per ripartire ma mi tremano le gambe mentre se fossi in Germania sarei più tranquillo?
«Forse perché riconosce alla Merkel un’ autorevolezza superiore a quella che attribuisce a Conte. Se è così, penso che si debba al fatto che la Cancelliera ha parlato meno ma ha detto di più. La comunicazione del governo italiano è stata poco chiara, quasi fosse voluto. I cittadini sono stati bombardati di norme che cambiavano di continuo e a volte si contraddicevano».
Di conseguenza in Italia ciascuno ha fatto da sé
«È mancato il manico e si è usato un tono apocalittico per essere ascoltati. Poi ci si è nascosti dietro il parere degli scienziati, solo che il virus era sconosciuto e ogni professore aveva la sua opinione. Si è creata una confusione non da poco, volendo andare dietro a tutti. Peccato che la medicina non è democratica: può essere che uno abbia ragione e il 99% torto».
Cosa dovremmo fare per ripartire tranquilli?
«Mantenere la calma e non ripetere gli errori. Osservare gli altri anziché proporsi come modello: guardiamo cosa succede dove si è riaperto, e se il contagio lì non riparte, copiamo. E poi bisogna fare un calcolo tra il rischio epidemico e il disastro economico che la chiusura comporta».
Nulla da eccepire: quando si ha una capacità di analisi critica così “fredda” e determinata i ragionamenti scorrono via lisci come l’olio. Io adoro quest’uomo!