di Andrea Dei, da “Omeopatia33” dell’11 giugno 2021
Molti seguaci della medicina ortodossa e la maggioranza degli omeopati hanno una caratteristica che li accomuna quando discettano di omeopatia: quella di ignorare sistematicamente i dati sperimentali. Per i primi la prassi comune è il dileggiare, il disprezzare, lo schernire, l’irridere, l’offendere sia i medici che praticano tale metodologia terapeutica, sia i pazienti che se ne giovano, sia i farmacisti che li commerciano, sia le istituzioni che li tollerano. I nomi dei capi-paranza che si pregiano di praticare con lo strumento dell’alterco l’oltraggio continuo nei confronti dei colleghi, sono tristemente conosciuti da tutti. Fra i più efferati c’è gente che si spaccia come un noto ricercatore, anche se purtroppo quasi sempre l’impietosa analisi della letteratura sottolinea la modestia dell’individuo, nel senso che è molto meno titolato di quanto lui voglia far credere. Ma c’è una cosa che colpisce nel caso della diatriba in questione: non c’è nessuno, fra gli ortodossi, che si sia mai peritato a essersi sbucciato i gomiti nel fare un lavoro sperimentale che giustificasse la propria autoreferenza espressa con preteso tono suadente.
Dall’altro lato del marciapiede zirlano la gran parte degli omeopati che quando giustificano la metodologia terapeutica si rifanno all’arte varia: dalla memoria dell’acqua ai domini di coerenza, dai clatrati informati all’epitassia, tutte accettabili se si accetta il presupposto della loro improponibilità. Ora per essi va di moda invocare la meccanica quantistica, anche perché non conoscendola, permette loro di dire quel che gli pare. Poco importa a loro se queste deprecabili esternazioni comportano discredito per la disciplina, con palese nocumento per i loro colleghi e per i pazienti che adottano la terapia. Così come poco importa a loro l’elucidazione di due aspetti chiave della metodologia omeopatica che si compendiano a) nella determinazione della natura del farmaco e b) nel chiarire il suo meccanismo di azione.
Per ambedue le fazioni, l’ortodossa e l’omeopatica, l’importante è negare con tutti i mezzi quanto l’evidenza sperimentale suggerisce e viene sostenuto dalla SIOMI: l’omeopatia altro non è che farmacologia delle microdosi e il suo meccanismo obbedisce al paradigma generale dell’ormesi. In altre parole, al pari della farmacologia ortodossa, si postula che l’azione del farmaco sia dovuto all’interazione di molecole sul substrato biologico, evitando di tirare in ballo le teorie amene sopra menzionate.
Il fondamento di tale visione si rifà a quanto pubblicato nelle pagine di questo giornale [Omeopatia33, ndr] in un articolo intitolato “L’omeopatia e il rasoio di Ockham”, apparso alcuni anni fa. L’impiego di tecnologie di indagine sempre più sofisticate indicava infatti:
- che per diluizione seriale non si otteneva mai una soluzione a concentrazione nulla, contrariamente all’aspettativa;
- che tutte le soluzioni dei farmaci omeopatici contenevano molecole di principio attivo sotto forma di nanoassociati;
- che la risposta del substrato biologico seguiva quanto previsto da meccanismi ormetici giustificando il principio di similitudine. Tale ipotesi è stata supportata da numerosi dati sperimentali e recentemente alcuni studi condotti in laboratori non direttamente interessati alla metodologia l’hanno confermata.
La conseguenza più importante è che si abolisce la differenza fra le due medicine e che si disegna una prospettiva futura per lo sviluppo dell’omeopatia. Ma al pari dei detrattori della metodologia, i guru dell’omeopatia si guardano bene dal considerare i dati sperimentali. Infatti l’accettazione della farmacologia delle nanodosi può comportare un rinnovamento della concezione filosofica della disciplina, anche se questo è materia di discussione, e soprattutto, nello stabilire l’equazione prodotto omeopatico = farmaco classico, viene a colpire gli interessi economici di alcuni gruppi. Pertanto si ha guerra dura come si è potuto verificare nell’ultima riunione dell’ECH e nel fatto che alcuni referee omeopati abbiano rifiutato la pubblicazione di un lavoro sperimentale del gruppo della Karagianni (Atene) riguardante l’Hypericum perforatum su un giornale di omeopatia. Gli autori sostenevano, sulla base di argomentazioni apparentemente corrette, che i loro dati sperimentali erano consistenti con la presenza di nanoassociati di molecole di farmaco anche a diluizioni estreme e che tale risultato era analogo a quanto essi trovavano in altri dieci diversi medicinali omeopatici.
Il risultato è stato giudicato scientificamente improponibile. Così mentre i referee-giullari, nell’occasione aspiranti becchini, festeggiavano il tentativo di seppellimento dell’evidenza coi loro mandanti, gli autori hanno dovuto pubblicare i loro risultati di interesse per gli omeopati su un giornale non di omeopatia (Heliyon, 2021, 7, e06604).
un articolo magistrale!…