di Andrea Dei, su “Omeopatia33” del 26 novembre 2015
L’augh-augh che ha accompagnato ancora una volta il dialogo-farsa fra Garattini e il CICAP da una parte e gli omeopati dall’altra supporta e promuove un sentimento di sgomento. Ho parlato di questo nello scorso numero di questo giornale nel contributo che si richiamava alla Fiera dell’Acqua Fresca.
Il punto chiave del contendere era al solito l’efficacia del medicinale omeopatico quando viene presentato con diluizioni più grandi della 12CH, quando sulla carta viene a essere violato il principio di quantizzazione della materia. La discussione che segue prescinde dall’efficacia terapeutica di tali preparati, visto che come chimico non sono in grado di valutarla, ma si riferisce soltanto a definirne la natura.
Nelle aspettative di coloro che continuano a ignorare che la realtà è ben diversa da come ci appare, ma continuano a discettare apoditticamente sulla base delle loro aspettative basate sul pregiudizio (leggi Garattini & C.), è abbastanza logico aspettarsi che a forza di diluire un qualcosa si arrivi a un qualcosa che non contiene nulla. La risposta degli omeopati si rifà all’arte varia. Si leggono interpretazioni di natura alchemica quali le affermazioni di quelli che credono che un preteso rimedio omeopatico abbia un carattere olistico e che questo non debba comportare la possibilità di identificare un principio attivo specifico, inferendo quindi al rimedio non il carattere di farmaco ma di santino (il che equiparerebbe il medico alla buona suora, se non fosse per la parcella). Analogamente son da scartare tutte le teorie delle pretese memorie dell’acqua, magari invocando misteriosi effetti della quantomeccanica, anche perché chi le tira in ballo in generale non ha la minima idea di quello di cui sta parlando. Infine le tanto magnificate esperienze come quelle riportate da Montagnier, che in realtà non ha fatto che riprendere il lavoro di Benveniste, appartengono alla fantafisica ed è disdicevole il solo citarle dal momento che recano danno a tutti i medici che hanno adottato l’omeopatia come metodo terapeutico.
Premetto che, sempre come chimico, credo fortemente che “corpora non agunt nisi in loco”, il che vuol dire semplicemente che un farmaco deve contenere particelle che interagiscono sul substrato biologico e che questo è il solo tipo d’informazione che può dare una soluzione. Talchè da vent’anni ho sempre pensato che qualsiasi rimedio omeopatico per essere efficace dovesse contenere qualcosa e che ci fosse qualcosa di sbagliato nella concezione comune del processo di diluizione.
I risultati di lavori di ricerca svolti sia dal gruppo di ricerca dell’Università di Firenze, di cui faccio parte, che dell’Università di Verona (prof. Bellavite) mostrano che trattando DNA-microarray con soluzioni contenenti rimedi omeopatici in differente concentrazione si osservano sempre effetti significativi di variazione dei profili genici a tutte le concentrazioni comprese quelle che non dovrebbero prevedere l’esistenza di molecole e che tali effetti si attenuano all’aumentare della diluizione. Poiché non si vede perché la memoria dell’acqua debba dipendere dalla diluizione, i risultati osservati sono consistenti con la presenza di una concentrazione diversa da quella aspettata (da qui la citazione di William di Ockham).
In pratica questo si può verificare se a causa delle interazioni idrofobe si viene a saturare con molecole di principio attivo l’interfaccia liquido-vapore della soluzione e il numero delle molecole diminuisce lentamente e non linearmente all’aumentare della diluizione. Poiché il numero delle molecole che possono essere ospitate all’interfaccia è limitato, questo fa sì che in pratica si osservi la diluizione lineare fino a una certa concentrazione e poi in prima approssimazione questa rimanga quasi costante per effetto della preferenzialità di interazione del soluto all’interfaccia. E’ ovvio che questo dipenda dalla natura della sostanza, ma si può concludere che, in pratica, non esista mai una soluzione omeopatica a concentrazione uguale a zero. Ancora una volta quindi si può affermare che gli effetti di un medicinale omeopatico debbano essere letti nell’ottica della farmacologia delle microdosi. Non era difficile, bastava pensarci, ma quando lo ipotizzai venti anni fa, non avevo dati sperimentali per supportarlo. Tuttavia non posso fare a meno di sottolineare che effetti similari di interazione preferenziale intermolecolare sono responsabili del fallimento di molti farmaci e questo i farmacologi dovrebbero saperlo. Un effetto analogo è stato riportato da Kane e Bellare (Langmuir, 2013) per una dispersione di nanoparticelle di oro. Misure effettuate con tecniche di diffrazione elettronica e microscopia elettronica mostrano che soluzioni in apparenza 200CH contengono in pratica le stesse particelle della 6CH, anche se in questo caso non vanno considerate interazioni idrofobe, ma semplici meccanismi di flottazione. I dati sperimentali indicano che viene a essere popolato solo lo strato superficiale della soluzione per uno spessore di 0,2 mm.
Ringrazio il dott. Gino Santini per avermi segnalato l’articolo.
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