Il problema della validazione delle terapie non ortodosse

di Andrea Dei, su “HIMed”, novembre 2011

La cura della salute e la sua regolamentazione sono prerogative dello Stato e poiché la cultura e la religione occidentali hanno condizionato lo sviluppo dello Stato a seguire un modello di razionalità esasperata, è comunemente accettato nel mondo occidentale che le regole, le norme e le leggi che definiscono tali prerogative debbano essere ispirate da un razionalismo radicale. Così non deve meravigliare il fatto che i trattamenti terapeutici previsti dai diversi Servizi Sanitari Nazionali (SSN) debbano essere supportati da un principio di razionalità che, giustificatamente o meno, viene fatto coincidere in ambito medico con la verifica della cosiddetta evidenza. Pertanto le linee guida che definiscono tali trattamenti terapeutici, che, è bene ricordarlo, dovrebbero riguardare specificatamente il singolo, nell’ambito di un SSN devono essere legittimate seguendo un certo paradigma che deve avere carattere generale.

Il punto è che esistono due tipi di legittimazione: quella ortodossa, che è basata su una pretesa scientificità del modello biomedico e che viene espressa massimamente da studi clinici controllati e randomizzati (RCT, Randomized Control Trial o Randomized Clinical Trial) e quella empirica, detta anche clinica nella letteratura anglosassone, che si basa su una serie di metodologie diverse a seconda dei tanti modelli terapeutici ritenuti validi, anche se non ortodossi, quali sono quelli espressi dalle CAM. A questi tipi di legittimazione ne va aggiunto un terzo, che è quello antropologico e che parte da presupposti totalmente diversi, come sarà mostrato in seguito.

Tuttavia visto che la accettazione o meno di un criterio di legittimazione da parte di un SSN implica medici, operatori, burocrati e legulei del mondo sanitario, che non sono certo esperti di antropologia, il problema si riduce a stabilire se un trattamento terapeutico possa essere o meno “validato” seguendo un modello empirico in alternativa a quello ortodosso. [1]

Va da sè che in una società basata sul razionalismo, il metodo ortodosso, che sulla carta è definito da inoppugnabile evidenza scientifica, è intrinsecamente valido per autodefinizione. Così non è nel caso delle CAM e questo costituisce il nocciolo del problema dell’accettazione di tali tecniche terapeutiche nell’ambito del SSN. Tale problema è senza dubbio il concetto centrale nell’istituzionalizzazione o meno della Medicina Integrata.

Allo stato della attuale legislazione ogni tecnica terapeutica deve soddisfare requisiti di efficacia e di sicurezza, tal quali possono essere dimostrati attraverso la sperimentazione cosiddetta scientifica. Questa filosofia, nella sua versione più integralista, ha dato origine alla formulazione del movimento di pensiero che nella letteratura anglosassone viene etichettato come medicina basata sulle evidenze (EBM). Il concetto portante dell’EBM è che la potenzialità decisionale di ogni intervento medico è demandata alla valutazione critica dei risultati reperibili dalla letteratura scientifica e che tale valutazione deve determinare la scelta delle decisioni da adottare nella cura dei singoli casi terapeutici.

Il punto è che la dottrina impone un approccio diagnostico e terapeutico che non debba dipendere dal giudizio del singolo medico, e quindi di natura soggettiva, ma che invece debba essere esclusivamente oggettivo in quanto dettato da risultati sperimentali raccolti precedentemente. Questo criterio di oggettività è il grosso ostacolo alla validazione delle tecniche terapeutiche non ortodosse o, per lo meno, alla gran parte di esse per tutta una serie di motivi che discuteremo successivamente.

Tuttavia, come più volte negli anni passati ho avuto modo di esprimere, è il paradigma stesso dell’EBM che, malgrado l’apparenza, non soddisfa i crismi di autoconsistenza filosofica e scientifica sui quali ha la pretesa di basarsi. Questo al di là del fatto che io lo ritenga in gran parte frutto di quell’ascetismo intrinseco nell’etica protestante, che ha contribuito in maniera determinante, sia nel bene che nel male, alle linee guida che hanno ispirato la moderna società occidentale.

L’intendimento dei sostenitori dell’EBM è da ritenersi essenzialmente un tentativo di espressione razionale di una realtà complessa qual è l’atto medico, malgrado vi siano comprese implicazioni sociopolitiche di convenienza istituzionale. Questo tentativo prende origini dall’adozione da parte della cultura anglosassone del neopositivismo logico, approccio filosofico che fu sviluppato nell’ambito del Circolo di Vienna negli anni venti e successivamente fu diffuso dai suoi seguaci, quando molti dei migliori cervelli della mitteleuropa emigrarono in Inghilterra e negli Stati Uniti. Questi filosofi, colpiti dagli sviluppi della fisica, che nei primi decenni del secolo riuscì a coniugare teoria ed esperimento nel presentare i nuovi fondamenti della realtà naturale, ritennero che anche il pensiero stesso (in primis la filosofia) dovesse essere un’espressione oggettiva come se fosse il risultato di un esperimento scientifico. Questo comportava che ogni dettato della metafisica e molti dei fondamenti della religione e dell’etica fossero da ritenersi privi di senso in quanto predeterminanti uno scopo della conoscenza scientifica.

Negli anni successivi le teorie di due importanti filosofi quali Popper e Hempel, ancorché formulate in ambito diverso, contribuirono ulteriormente all’affermazione del movimento, i cui prerequisiti culturali sono mantenuti ancora oggi in molte indirizzi istituzionali. Il presupposto di questo movimento di pensiero è la presunzione dell’esistenza di un concetto di “scienza” perfettamente definibile nella sua astrazione e nelle sue caratteristiche.

In altre parole la scienza si deve caratterizzare per la sua natura essenziale. Questo non è accettabile per due motivi. Il primo è che non esiste nessuna verità essenziale accessibile all’individuo, dal momento che per motivi biologici non è in grado di distinguere fra realtà e allucinazione a meno dell’introduzione di un postulato. Il secondo è che, se fosse possibile, non sarebbe utilizzabile dal momento che la scienza, implicando un numero di discipline diverse, è per sua natura non omogenea, poiché le proprietà che caratterizzano una disciplina possono essere differenti da quelle che ne caratterizzano un’altra. Al più quello che si può dire, parafrasando Wittgenstein, è che molte delle diverse discipline scientifiche hanno un insieme di caratteristiche comuni, ma non si può certo dire che, se questo insieme di caratteristiche si ritrova solo in parte in una disciplina, questa cessa di essere una disciplina scientifica. Così nello stesso modo se molte metodologie terapeutiche sono definite secondo certi criteri, e altre metodologie terapeutiche soddisfano solo in parte gli stessi criteri, non possono per questo non essere definite metodologie terapeutiche.

La possibilità di arrivare a una formulazione di una teoria determinata solo da un’evidenza oggettiva in quanto supportata da risultati sperimentali accurati e indipendenti dal giudizio e pregiudizio dello sperimentatore, presuppone, come nel caso della scienza secondo Popper tanto amata nella letteratura medica (N.d.A.: visto che il Teeteto di Platone dice le stesse cose, qualche volta potrebbero citarlo), la caratteristica di essenzialità del concetto di evidenza. Una volta accettato questo, è possibile concepire una trasparenza dell’agire di un individuo, se accetta di operare secondo canoni oggettivi univocamente determinati dal dato sperimentale. Questo modo di pensare viene creduto costituire il riferimento più ragionevole dell’agire umano permettendo di farne aumentare il livello di affidabilità. La medicina delle evidenze si fonda su questo paradigma: le decisioni cliniche vanno prese esclusivamente sui risultati delle più recenti accurate indagini scientifiche; ogni terapia deve essere supportata da RCT o meglio SSRCT (Systematic Reviews of RCT), ogni intervento medico per essere accettato deve implicare la possibilità di misura quantitativa, devono essere evitati i cosiddetti protocolli, ma solo il problema clinico deve determinare il tipo di evidenza da ricercare, e infine ogni decisione si deve basare sui risultati di metodi statistici (ovvero le cosiddette meta-analisi).

Il successo della filosofia EBM sta in un’ingenuità di fondo del concepimento della realtà fisica e biologica determinata da una serie di relazioni lineari quale fosse una immenso gioco degli scacchi nel quale i singoli pezzi si muovono attraverso regole semplici. Stante questo modo di concepire la realtà, qualsiasi forma di intuizione derivante da capacità acquisite dal medico con l’esperienza clinica viene condannata. La decisione clinica che prenderebbe sarebbe soggettiva e non supportata come migliore da dati sperimentali oggettivi, e quindi fuorviante rispetto a quanto dettato dall’evidenza. C’è infine da sottolineare che una simile visione non può tenere conto del paziente se non come supporto passivo, visto che il suo stato di malattia è considerato oggettivabile da una serie di parametri e inseribile in un quadro predeterminato. Questa concezione meccanicistica dell’arte del curare non lascia spazio al paziente, che ha solo la libertà di subire. Come abbiamo discusso in un altro contributo, è molto probabile che questa sia la causa del successo delle CAM presso il pubblico negli ultimi anni, quasi fosse una forma di riscossa sociale.

L’insussistenza del paradigma basato sull’evidenza oggettiva, che demanda agli RCT il ruolo di navigatore nella pratica medica, si ritrova nel fatto di dover decidere quali siano i dati sperimentali oggettivi che portino a una decisione terapeutica rispetto a un’altra. Questo è stato il grande problema dell’EBM dal momento che spesso i dati osservabili possono supportare più diagnosi e più scelte terapeutiche. E’una situazione che qualsiasi medico conosce benissimo e da qui nasce il problema della scelta della decisione che non può essere oggettiva. E’il punto che fa crollare tutta l’impalcatura della dottrina.

Come se non bastasse esiste sempre il problema di determinare quale sia la prassi migliore da seguire tenendo conto delle incertezze associate agli studi precedenti e, soprattutto, non esiste nessun criterio per determinare l’accettabilità statistica del processo di meta-analisi. Questi due punti prevedono decisioni soggettive sui criteri di affidabilità. Malgrado tutto questo, la fede incrollabile nella razionalità e nella oggettività della scienza, porta i guru dell’EBM a formulare la seguente discutibile risoluzione: ogni volta che si abbia una contesa sulla decisione terapeutica, esisterà sempre una serie di dati neutri accettabili da entrambi i contendenti che porteranno oggettivamente alla soluzione corretta. E’un tipico caso che ci riporta all’antinomia del “Tutti i cretesi sono bugiardi” di Epimenide di Creta.

E’ logico sostenere che l’RCT sia stato concepito come uno strumento per determinare una correlazione diretta fra un certo trattamento terapeutico e il suo eventuale successo. Di fatto è un tentativo di stabilire una relazione causa-effetto e da un punto di vista della ricerca biomedica ha indubbiamente valore. [2, 3]

Però è sempre bene ricordare che tale valore è intrinsecamente limitato dalla natura stessa dello strumento, dal momento che richiede la definizione di una serie limitata di osservabili e della loro misura quantitativa, prescindendo da tutta una serie di parametri che definiscono la normalità e l’anormalità del singolo individuo. Per questo motivo l’RCT non è compatibile con metodologie terapeutiche che si basano su principi diversi da quelli della medicina ortodossa. Di fatto è la stessa essenza di molte CAM, che si rifanno a una visione olistica dello stato di malattia e dell’esito di guarigione, che limita, quando non esclude, uno strumento come l’RCT che si rifà a un paradigma riduzionista, in quanto volutamente basato solo su alcuni aspetti dell’evidenza e volutamente prescindente dalla considerazione dell’individualità del paziente. La prassi adottata dai medici esperti nelle CAM prevede nella maggior parte dei casi una relazione medico-paziente che costituisce essa stessa uno strumento terapeutico e come tale viene costruita su misura, attagliata e personalizzata in funzione delle caratteristiche dell’individuo. In altre parole tale interazione ha carattere idiografico e non è parametrizzabile come vorrebbe la logica nomotetica di un RCT. C’è altresì da osservare che la richiesta di terapie non ortodosse riguarda in massima parte la cura di malattie croniche o un desiderio di prevenzione, che costituiscono purtroppo spesso materia di insuccesso o di risultati insoddisfacenti per la biomedicina. In questi casi l’intervento delle CAM sovente prevede tempi lunghi, che male si prestano all’applicazione di metodologie epistemologiche che prevedono la determinazione di una correlazione causa-effetto che in un esperimento di fisica può avere significato solo se depurata da tutti i fattori di disturbo. Infine c’è da sottolineare un aspetto chiave, che spesso viene dimenticato. La caratteristica delle terapie non ortodosse è quella di basarsi su filosofie di interpretazione che sono diverse per definizione da quelle ortodosse. Il loro grande merito è stato quello di essersi costituite come pratica medica in maniera indipendente e di esistere altresì come sistema terapeutico indipendente e ben definito con tutti i tenet e le pratiche esoteriche che le distinguono. L’ostinarsi a voler adottare gli stessi criteri di valutazione in uso nella biomedicina alle terapie non ortodosse significa mirare alla scrittura di un’equazione CAM = biomedicina, che non può avvenire senza snaturare l’essenza delle CAM. Questo è quanto si è già verificato, per esempio, con l’introduzione dell’agopuntura e dell’osteopatia nell’ambito di alcuni SSN. Il che implica due grosse conseguenze: la prima è la parziale rinuncia a quell’aspetto olistico che caratterizza le CAM e la seconda di dover accettare un ruolo subalterno alla biomedicina, dal momento che il criterio di valutazione basato sull’evidenza della biomedicina sottolineerà sempre una differenza di efficacia fra i modelli terapeutici ortodossi e quelli non ortodossi.

Il problema di una regolamentazione statutaria delle terapie non ortodosse nell’ambito del SSN non può quindi prescindere dall’ introduzione di metodi di valutazione diversi da quelli imposti dal dogma dell’RCT. Prima di discutere l’argomento, premetto che una tale proposta sarà sempre osteggiata, derisa e vilipesa dai seguaci del dogma per il semplice motivo che per esistere hanno bisogno del dogma. Il che li pone in una situazione grottesca in quanto per difendere la supremazia e la purezza di una metodologia scientifica essi adottano il comportamento che meno si attaglia e si confà all’uomo di scienza. Per quest’ultimo la strada è per definizione in salita, nel senso che non esiste mai una certezza.

La proposta più comune da parte dei seguaci delle CAM è quello di sottolineare la diversità del modello terapeutico di verificarne l’efficacia attraverso “studi pragmatici aperti” (in inglese unblinded pragmagtic trials), dove pragmatici sta a indicare “condotti in condizioni normali” e non condotti in condizioni ideali. Per capire la proposta è necessario chiarire i meccanismi sui quali si fondano gli RCT.

Lo strumento di indagine si basa essenzialmente sul confronto dei risultati di un trattamento terapeutico su un gruppo di pazienti rispetto a un gruppo di controllo costituito da pazienti che credono di riceverlo. Lo studio viene detto in cieco se solo i pazienti ignorano a quale gruppo appartengono, in doppio-cieco se sia i pazienti che gli sperimentatori sono all’oscuro di chi sta ricevendo il trattamento, e in triplo-cieco se anche coloro che alla fine sono chiamati a analizzare statisticamente i dati sono tenuti lontano dalle suggestioni con l’ignorare chi ha subito il trattamento che si vuole sperimentare. Tuttavia nel caso presente consideriamo una versione più sofisticata dell’RCT, che è quella che prevede la considerazione di tre meccanismi. Tali meccanismi sono stati concepiti per eliminare il più possibile le fonti di distorsione nella sperimentazione clinica con la creazione di tre o più gruppi di pazienti, possibilmente con caratteristiche omogenee. L’assegnazione di un paziente a uno dei gruppi deve avvenire in maniera casuale (randomized) e solo i membri di un gruppo ricevono il trattamento terapeutico che si vuole sperimentare ma ne’ loro ne’ gli sperimentatori ne sono a conoscenza, così come non ne sono a conoscenza i membri del secondo gruppo che ricevono apparentemente lo stesso trattamento. I membri del terzo gruppo costituiscono il gruppo di controllo. La differenza fra il secondo e il terzo gruppo permette di stabilire l’effetto placebo,4,5 ovverosia la reazione di un organismo quando crede di essere sottoposto a un trattamento terapeutico che può migliorare il suo stato di salute. In altre parole tale effetto permette di misurare gli effetti di un trattamento senza che esso sia attribuibile alle proprietà farmacologiche di un medicamento, che peraltro vengono stabilite dalla differenza riscontrata fra il primo e il secondo gruppo.

Resta infine da sottolineare un punto: i risultati ottenuti vanno sempre interpretati e qui una certa aspettativa, un pregiudizio, una errata valutazione di errori sistematici, un disegno sperimentale imperfetto possono sempre inficiare la conclusione. Il pregiudizio negativo ad esempio che i medici ortodossi hanno nei confronti di molte CAM e quello opposto dei medici esperti delle CAM ha portato spesso a valutazioni discordanti. Ma c’è sempre da ricordare che un RCT è volto a produrre una nuova evidenza e che tale evidenza va discussa nell’ambito di una conoscenza acquistata precedentemente. Quando la teoria a supporto di tale conoscenza è scientificamente poco probabile o per lo meno discutibile, come per esempio l’omeopatia nella sua formulazione tradizionale, la possibilità di accettare la nuova evidenza è fortemente limitata. Questo non vale però per altri tipi di terapie come la fitoterapia e la gemmoterapia che possono essere in linea di principio tranquillamente validate coi metodi RCT e come tali incorporate nella medicina ortodossa.

La richiesta di studi “aperti” (inteso come opposto a cieco) a questo punto è chiara: il seguace delle CAM in tali studi vuol riassumere sia gli effetti specifici del trattamento sia quelli non specifici come quell’effetto psicofisiologico da alcuni banalizzato come effetto placebo. In altre parole l’effetto placebo presuppone uno stimolo di un meccanismo di autoguarigione e come tale è benefico e ha la sua indubbia importanza a livello terapeutico. Poiché tale tipo di studi non prevede il mascheramento del trattamento (è infatti uno studio aperto), sono necessari solo due gruppi di pazienti in quanto si paragona chi riceve il trattamento e chi non lo riceve. Il problema è che chi non lo riceve lo sa e questo può causare un effetto opposto a quello benefico del placebo, che viene chiamato nocebo o, come più recentemente è stato proposto, frustrebo.

Le vestali dell’RCT sono ipercritici su questo punto: esso infatti non supporterebbe di per sé la validità delle CAM, se non fosse per l’effetto nocebo del gruppo di controllo che fa spostare la bilancia a favore dell’efficacia del trattamento terapeutico. Essi sottolineano altresì che la stessa natura dello studio implica il rischio di pregiudizi cognitivi (i cosiddetti cognitive biases, in psicologia), la cui esistenza può inficiarne a priori la sua validità. Resta il fatto che tale critica non fa che supportare l’importanza dei fattori psicologici nell’esito di un trattamento e se tali fattori sono riconosciuti esistere e costituiscono uno stimolo di autoguarigione, non si vede perché l’ortodossia per principio abbia scelto di denigrarli e continui a scegliere di farne a meno. L’enfasi che viene posta nel magnificare l’RCT, che è uno strumento mirato a valutare il solo effetto farmacologico di una molecola, potrebbe suggerire anche non troppo velatamente la volontà di imporre un modello biomedico che prescinde dal fatto che il paziente sia anche un essere umano.

Una alternativa di validazione delle CAM è quella dell’analisi statistica degli esiti di un trattamento terapeutico se la misura della riuscita o meno viene ad essere demandata al grado di soddisfazione espresso dal paziente in conseguenza del trattamento ricevuto. Questo in linea di principio permette di confrontare l’efficacia di trattamenti terapeutici diversi, come le CAM fra di loro o le CAM e la medicina ortodossa. L’analisi statistica permette una analisi accurata di questo tipo di dati e offre la possibilità di suggerire la validità o meno di un trattamento terapeutico come conclusione di una valutazione basata sulla introduzione di ipotesi diverse e indipendenti, statisticamente indicate come null hypothesis, che vengono accettate o respinte a seconda del loro impatto sulla razionalizzazione della collezione di dati. Il punto di discussione qui è costituito dal concetto di esito benefico o meno o più semplicemente da cosa si intenda per guarigione. Per la biomedicina esso viene definito dalla normalizzazione di una serie di parametri biologici mentre per le CAM, come è stato discusso in altri contributi, è il ritorno del paziente alla sua interazione normale col mondo che lo circonda. Ancora una volta da una parte si cerca di definire oggettivamente uno stato di guarigione, mentre dall’altro lo si definisce soggettivamente. La discrasia non è risolvibile perchè è alla base delle diverse filosofie dei modelli terapeutici e ancora una volta presta il fianco a troppe critiche reciproche per essere presa a modello di una regolamentazione statutaria da parte del SSN. Resta il fatto che la sua formulazione potrebbe essere giustificata sia in termini di rapporto costo/beneficio sia riferendosi alla scelta del pubblico, ovvero a quella che abbiamo definito legittimazione popolare che si trasforma in questo caso in legittimazione empirica.

Questo nei paesi occidentali è già successo, come dimostrato dal referendum tenutosi in Svizzera, anche se la sua applicazione ha sempre comportato una serie di difficoltà e di compromessi. Tuttavia è chiaro a tutti che un tale tipo di legittimazione diventa superiore a quella basata su argomenti scientifici perché la scelta di salute dei cittadini, che sono disponibili a pagare di tasca propria per poter usufruire di metodi terapeutici diversi da quelli offerti dalla medicina ortodossa, diventa prioritaria da un punto di vista sociopolitico. Infatti tale scelta, che prevede una preferenza di certi modelli terapeutici al di là del fatto che siano regolati o no, diventa una manifestazione di ribellione popolare nei confronti dell’istituzione che governa la società e nei confronti dell’ortodossia alla quale, per scelta dell’istituzione, sono stati demandati l’autorità e il compito di amministrare la salute dei cittadini. Lo Stato per definizione non può ammettere di rimanere non ascoltato (se fosse vero il contrario, perchè promulgare leggi?), ne’di poter assistere inerte al fai-da-te nelle decisioni dei cittadini su come e dove curarsi, stante l’impossibilità di poter impedire questa loro scelta riconosciuta eticamente corretta. Il principio è che se i cittadini rifuggono da quanto offerto dal sistema sanitario basato sull’ortodossia, significa che questo non offre una scelta soddisfacente e a questo si deve porre rimedio perchè la protezione del cittadino è istituzionalmente uno dei fondamenti della società. E’quindi presumibile che questa volontà popolare di auto-determinazione, che si sta diffondendo, lo costringa non solo ad allargare l’offerta di salute, ma anche a auspicare e a supportare criteri di validazione dei metodi terapeutici non ortodossi che superino i limiti imposti dalla biomedicina.

Come riportato da Ireh Iyoha ed è stato menzionato all’inizio, esiste un altro metodo di valutazione che prescinde dal criterio scientifico ed è quello che viene definito come “antropologico”. [6] Tale metodo in generale esamina l’osservatore nel contesto di un fenomeno che si vuole osservare. Secondo gli antropologi esso permette di identificare alcuni fattori che non sono individuabili con metodi scientifici come la randomizzazione o tecniche in cieco, ma più semplicemente attraverso uno studio osservazionale e intuitivo. Essi sottolineano l’importanza dell’interazione fra un paziente e il suo medico curante o più in generale colui al quale ha delegato la risoluzione dei suoi problemi di salute. Di fatto in omeopatia è stato osservato come spesso solo la prescrizione del proprio omeopata possa risultare efficace nel rimuovere una indisposizione, mentre tutte le altre prescrizioni di altri medici risultino inefficaci.

Gli antropologi sottolineano questo tipo di evidenza terapeutica come risultato di una efficacia dovuta a relazione fra due diversi soggetti, che non dipende dal modello biomedico adottato. Ancora una volta quindi si deve concludere che non si possono trascurare l’emozione, la suggestione e le esperienze precedenti nel valutare l’efficacia o meno di una terapia e non si può pensare di canonizzare una medicina volta a rimuovere ogni considerazione per i fattori umani, come vorrebbero i seguaci del dogma dell’RCT. Deridere l’interazione medico-paziente, la comunicazione e la relazione umana in quanto fuorvianti nella ricerca di una terapia sempre più efficace, come purtroppo si trova scritto in molti articoli dei suddetti seguaci, tradisce di fatto l’essenza stessa dell’atto medico. Aggiungo che almeno non andrebbe detto da chi continua a chiudere gli occhi sul fallimento di uno dei tenet della loro ortodossia, qual si ritrova nel fatto che la stessa molecola che è assunta dare origine in tutti gli organismi agli stessi effetti benefici se non quantitativamente, almeno qualitativamente, lo faccia solo in maniera parziale e spesso dando origine a effetti indesiderati. Il dimenticarlo o peggio il mascherarlo utilizzando campagne di disinformazione non è certo qualificante.

Tutta la diatriba nasce, almeno per me non medico, da una misinterpretazione di fondo della natura della medicina. La ricerca ossessiva dell’interpretazione di uno stato di malattia e dei modi per risolverlo attraverso la formulazione di leggi generali pretende di fatto di assimilare l’atto medico a un esperimento di fisica o di chimica. Da qui la pretesa di seguirne lo stesso monismo metodologico, dimenticando che la medicina è un dominio dell’espressione, della psicologia e del comportamento umano oltre che della natura biologica di un organismo. Questo comporta che ogni atto medico può essere associato a un quadro generale di intervento, ma non va mai dimenticato di considerarlo nelle sue caratteristiche di individualità e di unicità. Pertanto l’intervento non può non considerare di tenere conto anche del quadro mentale del paziente, delle sue percezioni, della sue esperienze passate e financo delle sue intenzioni future anche perché, come ha scritto Dostoevskij, è nella sofferenza che si ha la nascita della consapevolezza.

Una visione volta a instaurare una metodologia terapeutica iperrazionale questo non lo può contemplare, in quanto questi fattori introdurrebbero effetti parassiti e di disturbo nella visione stessa, ma allo stesso tempo si deve prendere coscienza che così facendo si sminuisce l’efficacia dell’intervento stesso.

L’ortodossia biomedica deve riconoscere che la separazione cartesiana res cogitans – res extensa sulla quale si è sviluppata, ha i suoi indubbi meriti a livello metodologico permettendo di formulare un approccio analitico, ma c’ha anche i suoi limiti e questa concezione va ridimensionata come è già successo in tanti campi del sapere umano. Tralasciando di rifarmi a Feyerabend e al suo “Contro il metodo”, per fare due esempi ricordo come tale concezione sia stata massacrata da Heisenberg quando è nata la fisica quantistica e come prima di lui l’avesse fatto Max Weber in sociologia.
L’RCT è, per contro, la pedissequa espressione del metodo cartesiano con tutte le sue termiti alla radice e permette di valutare solo una dimensione di una realtà multidimensionale. Prendere coscienza di questa multidimensionalità è un atto dovuto se si dichiara di agire secondo un principio di responsabilità, come è solita affermare l’ortodossia.
Pertanto, invece di pontificare con autoreferenza e con disprezzo sull’effetto placebo quando parlano di CAM, comportamento perfettamente conseguente all’elezione a dogma del metodo cartesiano da parte di chi, ribadisco, per esistere ha bisogno del dogma, i seguaci dell’ortodossia dovrebbero armarsi di umiltà e cogliere l’occasione di allargare la propria visuale sfruttando quanto viene loro offerto dall’enorme tradizione culturale delle medicine non ortodosse. Ma questo anche per un’altra considerazione.

Non mi sembra che nella pratica medica sia chiara la differenza esistente fra scienza e tecnologia. Si parla di scienza laddove è abbastanza evidente che tutte le pratiche in uso riguardano la tecnologia. Questo aspetto è molto importante perché da un punto di vista tecnologico ogni metodologia terapeutica può essere considerata un metodo operazionale, indipendentemente dalla scientificità o meno del modello al quale si ispira, visto che il fine in questo caso non è l’andare a cercare quello che nasconde la natura, ma il vantaggio e il benefizio. Come conseguenza il medico deve sforzarsi a separare la constatazione dei fatti dai giudizi di attendibilità o meno di un certo modello. Questo perche ogni metodologia volta a determinare l’efficacia di un trattamento riflette necessariamente la sua dipendenza dal modello di riferimento. In pratica non esiste una metodologia che si prefigga e consenta di dare una risposta a tutte le richieste che la disciplina medica vorrebbe venissero soddisfatte. Però come sottolineato da molti ricercatori, sono dell’opinione che questo potrebbe essere realizzato introducendo un approccio metodologico pluralistico, che fosse volto a evidenziare sia i limiti dell’RCT nella valutazione di sistemi terapeutici non ortodossi, sia l’importanza di credo culturali diversi, purchè posti in maniera non esclusiva, che sono ritenuti concorrere nel potenziale successo della terapia. Questo sta a significare che da una parte si dovrebbe prendere atto dei limiti del paradigma farmaco-inibitore e della logica cartesiana, che sono i pilastri dell’ortodossia, e dall’altra dell’impossibilità di imporre i principi teorici spesso tutti da dimostrare, che stanno alla base delle terapie non ortodosse e che tuttavia sono essenziali nell’ambito del metodo operazionale.

Il punto chiave della proposta presuppone, dal mio punto di vista, una rivoluzione del concetto di organismo biologico, che non può essere più generalizzabile come realtà materiale tenuto conto che il suo sviluppo e il suo modo di essere sono il risultato di atti cognitivi individuali. Il che implica che non si può trattarlo a un solo livello di descrizione e se questo vale per la normalità, deve valere anche per l’anomalia come è definibile uno stato di malattia. Considero questo concetto, che prevede l’introduzione dell’intreccio corpo-mente come entità non separabile, uno dei possibili presupposti dello sviluppo futuro della medicina e che l’adozione di quello che abbiamo menzionato approccio metodologico pluralistico possa permetterne l’attuazione. Esso di fatto favorisce il verificarsi di quel trasferimento di conoscenze fra i diversi sistemi terapeutici che può permettere la rivoluzione del concetto di organismo che ritengo necessaria e fine primo dell’istituzionalizzazione della Medicina Integrata, mirando a un atto medico che non rispetti solo l’umanità, ma che cerchi di appartenervi.

Bibliografia

  1. I. Iyoha, Evidence Based Complementary and Alternative Medicine, 2011, ID389518
  2. Jüni P, Altman DG, Egger M. BMJ 2001;323:42-6
  3. Chan AW, Altman DG. Epidemiology and reporting of randomised trials published in PubMed journals. Lancet 2005;365:1159-62
  4. O. H. P. Pepper. Am. J. Pharm., 1945, 117, 409
  5. A. Grunbaum, in Non-specific Aspects of Treatment, M. Shepherd and N. Sartorius Eds., Hans Huber, Toronto, 1989.
  6. R. Giarelli in On Knowing and Not Knowing in the Anthropology of medicine, R. Littlewood Ed., Left Coast Press, Walnut Creek, California, 2007.

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