Questione EBM. Come coniugarla con la singolarità del malato?

di Ornella Mancin – da “Quotidiano Sanità” del 29 settembre 2020 – LINK

Proseguiamo il dibattito sollevato dall'ultimo libro di Ivan Cavicchi sulle evidenze scientifiche in medicina con Ornella Mancin. “La questione dell’evidenza non è un'altra cosa dai problemi della sanità. Essa è un problema della sanità. Ma nessuno ne parla. Tutti parlano di territorio, di ospedale, di case per la salute, di medici da assumere, ma mai di evidenze”

Seguo il pensiero del prof Cavicchi da molti anni. Ho studiato da cima a fondo le sue 100 tesi quelle preparate per gli stati generali della Fnomceo. Su queste tesi ho organizzato i “mercoledì filosofici” cioè confronti di approfondimento tra operatori, medici, filosofi, e parecchie altre iniziative.
 
Il suo ultimo libro (L’evidenza scientifica in medicina, l’uso pragmatico della verità) è un ulteriore, secondo me, straordinario passo in avanti verso la definizione tanto di una nuova medicina che di un nuovo medico. Un libro che, a mio parere, ogni singolo medico dovrebbe leggere con molta attenzione.
 
Oltre al libro, ho letto, con grande interesse, le recensioni pubblicate su questo giornale: di grande livello (raramente capita di godere di un dibattito tanto profondo e competente) e tutte convergenti su un punto: le evidenze sono indispensabili e fondamentali, però
 
La vera novità di questo libro, secondo me, inizia da questo “però” in poi e più esattamente inizia, quando il prof Cavicchi, si chiede: “Se le evidenze sono quello che sono, che facciamo”? (QS, 21 settembre 2020)

Cioè come essere medici? Come dobbiamo ragionare? Quali comportamenti professionali dobbiamo mettere in campo? Quale formazione ci servirebbe?
Siamo tutti d’accordo, nell’analisi dei problemi dell’evidenza, lo siamo anche nel ripensare il paradigma che su quelle evidenze si fonda?  O è possibile, come mi pare di capire dal commento per altro molto illuminante del prof Familiari, “innovare la pedagogia” ma a paradigma invariante? Le unità didattiche pre-cliniche di cui egli parla, come sono collocate rispetto al paradigma di base? Che vuol dire meta-paradigma? Che vuol dire insegnare le regole dell’EBM? Quali regole? Le evidenze sono o no insegnate come verità paraconsistenti? Sarebbe interessante capire con quale logica e quindi con quale approccio sono insegnate? E chi le insegna? Un clinico? Un logico? Un epistemologo?

Il prof Familiari in sostanza ci dice che già da molti anni le università formano alla complessità e non stento a crederlo, ma io ho una figlia che si sta laureando e che sostanzialmente studia come studiavo io molti anni fa e i giovani medici che vengono a fare pratica nel mio ambulatorio non mi sembrano tanto diversi da mia figlia.

Non ho dubbi che in questi anni l’università si sia aggiornata nel metodo e nella sostanza, ma mi chiedo: come mai con una università tanto aggiornata ci troviamo in una crisi come se la complessità di cui parla il prof Familiari, ci soverchiasse?

In realtà tutti, in ogni convegno, quando si discute di crisi del medico, puntano il dito sulla formazione, quindi sull’università, che ormai rischia di diventare la controparte designata della nostra crisi, ma nessuno ci dice quale medico dobbiamo formare e quindi di quale formazione parliamo o se serve qualcosa di più robusto di un semplice aggiornamento.

Per cui mi chiedo: è possibile davanti alla grave crisi della professione limitarsi a aggiungere istruzioni a istruzioni a paradigma invariato?

Il prof Cavicchi, da anni ci dice che bisogna affrontare il toro per le corna quindi fare i conti con le inadeguatezze del paradigma e nelle 100 tesi scrive: “Ridiscutere un paradigma significa ridiscutere una tradizione, si tratta di una impresa culturale e sociale, tutt’altro che facile… La crisi del paradigma è una questione prima di tutto filosofica e politica, che concerne i soggetti che definiscono in modo diverso il paradigma stesso, quindi da una parte i cittadini e dall’altra i medici.” (pag. 39).

Tornando al suo libro, penso che tra i suoi meriti vi sia anche quello, che, a giudicare dalle recensioni che ho letto, i più trascurano, di mettere in relazione la medicina come scienza con la sanità come organizzazione, quindi il sapere con il lavoro, mostrandone tutte le interdipendenze.

Sino ad ora, senza nessuna eccezione che io conosca, la medicina è sempre stata intesa nei confronti della sanità, come un mondo a parte, cioè come una variabile indipendente, per cui in questi 40 anni si son potute fare tante riforme sanitarie ma sempre a medicina invariante, a medico invariante, a paradigma invariante, a modi di essere  invarianti.

La questione dell’evidenza non è un’altra cosa dai problemi della sanità. Essa è un problema della sanità. Ma nessuno ne parla. Tutti parlano di territorio, di ospedale, di case per la salute, di medici da assumere, ma mai di evidenze.

Nessuno mi leva dalla testa che alla base della “questione medica” ci sia quella che il prof Cavicchi chiama il “problema della regressività” cioè che i medici a partire dalla loro formazione, siano restati incagliati nel loro paradigma mentre tutto cambia, fino ad essere spiazzati.

Il prof Cavicchi, insiste da anni nel dirci che separare la medicina dalla sanità, quindi considerandola un mondo a parte, è un errore tragico. I comportamenti  professionali, quelli che tra l’altro interessano il malato, dipendono da come è organizzato il lavoro ma in funzione di come è organizzata la conoscenza e di come è formato chi lavora cioè da come gli hanno insegnato a ragionare.

Un ambulatorio, un ospedale, un distretto, sono esattamente la traduzione in prestazioni di servizio di un modo di pensare la malattia, il malato, quindi espressioni operative di un paradigma.

Il che vuol dire due cose: 1) che è vano ragionare di nuova organizzazione, o di nuova professione, o ancora di nuova autonomia, di ridefinizione giuridica, di formazione a paradigma invariante, 2) che se il paradigma è ciò che tutto guida intervenire su di esso potrebbe risolverci molti problemi, insomma tirare a campare non ci aiuta.

Perché, si chiede il prof Cavicchi, dovremmo ridefinire il medico se le sue prassi restano tali cioè se il paradigma non cambia? 

In questo libro, quindi, il prof. Cavicchi ha il coraggio di porre domande scomode che mettono in crisi il nostro modo di operare ricordandoci tre cose semplici: la medicina ha a che fare con la singolarità dell’individuo, la singolarità è la normale condizione del malato, le singolarità dei malati mettono in crisi le evidenze.

Molto più che in altre scienze la singolarità può mettere in crisi la verità.

La medicina ha a che fare con persone che non sono costituite da organi assemblati come i pezzi di ricambio di un’auto, ma individui con caratteristiche proprie, individuali, storie famigliari, percorsi emotivi e relazionali ma anche realtà biologiche le più diverse.

Ogni individuo è una storia a parte, ogni persona è singolare ela malattia è molto più di un fatto clinico, medicalmente circoscrivibile; è sempre la condizione di una persona, il malato” per cui non basta la conoscenza scientifica ma ci vogliono altre conoscenze ed altri valori e altri significati.

Purtroppo per tante ragioni non ultime quelle gestionali, il valore della singolarità nel tempo è andato perduto. Alle aziende ma anche alle società scientifiche, alle università, piace ridurre i malati in comodi algoritmi, ma non solo a loro, ai “lineaguidari” (come li ha chiamati ironicamente  il prof Cavicchi), piace il malato standard.

Che fine fa la singolarità con i tempari? Dove era la singolarità quando nel 2015 si definì il famoso decreto “appropriatezza prescrittiva”? Quale singolarità nella  legge Gelli Bianco sulla colpa medica, dove essa è fraintesa ad eccezione clinica anziché essere considerata la norma e dove le linee guida diventano l’unica protezione dal rischio professionale?

Il medico poggia il suo operato sulle evidenze scientifiche assunte in barba alle regole di cui ci parla il prof Familiari, troppo spesso come dogmi e tutto ciò che esula dagli standard viene considerato come una stranezza. Come mai? Perché mai la definizione di ebm di Sackett che Nino Cartabellotta ci ricorda continuamente è perfetta al limite della tautologia e i medici si comportano nella pratica in modo completamente difforme?

Il dubbio che mi viene non è che i medici siano dei pazzi ma semplicemente che quella definizione di medicina se la prendessimo davvero sul serio meriterebbe probabilmente un altro genere di formazione e quindi di paradigma che forse neanche a Sackett è venuto in mente. Per cui sulla definizione di ebm vince il vecchio paradigma e la definizione resta una semplice petizione di principio.

Mi sembra vano formare alla complessità, come prova a fare l’università del prof Familiari, quando l’intero paradigma clinico che finisce nella testa degli studenti, è basato sul riduzionismo e sullo scientismo.

Questo “modus operandi” rischia di creare serie fratture all’interno della società che si mostra insofferente verso un approccio “dogmatico” della malattia e una visione scientista della medicina. Oggi la società nonostante la nostra potenza scientifica si rivela più disincantata di quello che si crede.

Le evidenze scientifiche non sono “verità metafisiche”, dice Cavicchi nel suo libro, e le malattie non sono semplici “fenomeni biologici governati da leggi di natura”, ma sono “verità paraconsistenti” (definizione nuova), vale a dire verità che dipendono dal malato e dai suoi contesti e che quindi sono tali solo se funzionano. Le verità che non funzionano dice Cavicchi sono teoricamente corrette ma pragmaticamente inutili se non dannose.

Allora anche io mi chiedo, cosa bisogna fare per coniugare le “evidenze scientifiche” con la singolarità del malato? Ed è un processo possibile? Secondo me, in base alle mie esperienze di semplice medico di campagna, la domanda vera non è cosa bisogna fare per… ma come deve diventare il medico per essere un medico della complessità . Aggiornamento, formazione o addirittura ri-educazione?

Cavicchi parla di “uso pragmatico delle verità” e chiude il suo libro avanzando una proposta di “medico pragmatico” (cap 6) che trovo affascinante soprattutto per la sua coerenza e praticabilità. A me pare di poter dire che il suo pragmatismo sia la naturale evoluzione del nostro convenzionalismo positivista.

Si badi bene che il prof Cavicchi difronte alla crisi della medicina e del medico ci propone di restare nella nostra scienza quindi di restare con i piedi ben piantati per terra ma nello stesso tempo raccomanda di diventare ancor più realisti di quello che siamo. Nella 100 tesi egli definisce la medicina una super conoscenza con l’obbligo di essere super realista, cioè di “interpretare pragmaticamente la realtà attraverso i fatti, gli eventi, i fenomeni le espressioni e le manifestazioni dei malati intesi come esseri persone cittadini e individui” (tesi N° 89).
Per lui quindi il realismo dei fatti naturali, a cui si rifà la medicina scientifica è alla fine un realismo debole o quanto meno parziale.

Oggi noi medici siamo poco realisti perché al di la delle buone intenzioni, più in là dei fatti che riguardano la “malattia naturale” non riusciamo ad andare pur sapendo che oltre la malattia naturale c’è tutto il resto il famoso “mondo a molti mondi”. Credo che questa sia la ragione principale per cui la gente si fida sempre meno di noi.

Oggi noi medici lo dobbiamo ammettere siamo realisti esattamente quanto le evidenze ci permettono di esserlo.

Per cui da parte mia considero la svolta pragmatista che ci propone Cavicchi e quindi l’idea di un realismo forte, la migliore risposta politica e culturale ai problemi tremendamente reali della professione.

Conosco i miei colleghi e sono pronta a scommettere che non c’è un solo medico che non si consideri già un medico pragmatico, e in un certo senso è vero. Tutti noi difronte ai malati reali, siamo costretti ad essere un po’ pragmatici, ma tutti noi restiamo per la formazione ricevuta, per mentalità, per deontologia, dei medici sostanzialmente convenzionali.

Quando il prof Cavicchi si chiede perché mai un medico, per essere pragmatista cioè per liberarsi dalle convenzioni che ha studiato all’università, deve aspettare di avere i capelli bianchi, pone una questione giusta. Perché non insegniamo ai giovani medici che ancora non hanno i capelli bianchi a ragionare come se li avessero? Cioè perché l’esperienza della complessità (non la complessità tout court) non viene pragmaticamente tradotta in una formazione adeguata?

In chiusura vorrei riprendere la questione politica del rapporto stretto tra medicina e sanità.

Dopo aver letto il libro, mi è risultata molto più chiara una tesi sostenuta dal prof Cavicchi nel corso dei vari convegni organizzati prima della pandemia per gli stati generali dalla Fnomceo, vale a dire che, uno dei grandi errori fatti dai nostri riformatori, è stato quello di pensare che si potesse fare una riforma della sanità senza una riforma della medicina. In realtà non è possibile affrontare la questione medica ma anche tante altre criticità del nostro SSN senza una proposta che metta insieme una riforma della sanità e allo stesso tempo una riforma della medicina.

I miei colleghi enfatizzano, ma solo fino a un certo punto, la prima ma in generale tendono a negare la seconda se poi di mezzo ci sono le evidenze preferiscono cambiare discorso.

Sulla loro capacità di ripensarsi, conoscendo io il mondo degli ordini e dei sindacati, nutro forti perplessità, ma sulla necessità di farlo non ho dubbi. Ha ragione il prof Cavicchi, se vogliamo uscire dalla nostra crisi professionale, che anche la pandemia ha ribadito in modo inequivocabile, bisogna avere il coraggio di fare i conti con i nostri limiti, ma mi permetto di aggiungere, ancor prima dobbiamo accettare onestamente di averne.

A leggere gli articoli di certi miei colleghi, sembra che i limiti non esistano e che non siano mai esistiti e che in passato errori non se ne siano mai fatti e che alla fine si tratta di aggiustare qualcosina ma nulla di più cioè di ridare ai medici ciò che a loro è stato tolto.

In questo modo la questione medica diventa semplicemente una ingiustizia  fatta ad una professione innocente.

L’errore politico di 40 anni fa cioè separare la medicina dalla sanità ci è costato una crisi professionale. Fino a quando tale crisi non sarà risolta, l’università non farà mai abbastanza per ripensarsi e senza un ripensamento profondo dell’università temo che la crisi resterà a lungo senza soluzione.

Se avessi titolo vorrei ringraziare i prof Cavicchi a nome della mia intera professione, perché alla fine dei discorsi, con i suoi libri le sue battaglie, il suo instancabile impegno intellettuale, offre, unico in questo paese e nonostante tutto, cioè nonostante noi medici, comunque una contro prospettiva al nostro declino professionale.

Non avendo questo titolo mi limito a dirgli grazie per avermi aperto gli occhi, per averci offerto delle ipotesi di soluzione, per la sua capacità di immaginare un nuovo medico e senza paura  “di farsi ridere dietro” come ha scritto una volta in un suo articolo.

Siccome, come dicevo, mia figlia fra poco sarà medico, grazie anche a nome suo, cioè a nome dei nostri giovani che senza uno straccio di cambiamento saranno quasi certamente condannati a compiere il declino che noi, con la nostra davvero scarsa lungimiranza, di certo non siamo riusciti ad ostacolare.

Gino Santini
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Direttore dell'Istituto di Studi di Medicina Omeopatica di Roma. Segretario Nazionale SIOMI. Giornalista pubblicista. Appassionato studioso di costituzioni e del genere umano.

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