da “Hello World” del 9 giugno 2020 – LINK
Epicuro ci aiuta a superare le paure. La paura è un’emozione primitiva. Può diventare una sensazione così concreta da coinvolgere immediatamente corpo e mente precorrendo qualsiasi altro pensiero. Con cause che vanno dall’irretimento delle nostre potenzialità inespresse fino all’ansia sociale e ai veri e propri attacchi di panico.
Su questo argomento, grandi menti dell’antichità non avrebbero mai potuto scrivere manuali di psicologia evolutiva, o considerare ad esempio – come il divulgatore scientifico Daniel Goleman, teorico dell’intelligenza emotiva – il ruolo dell’amigdala nell’attivazione del sistema della paura. Tuttavia, così come seppero anticipare, magari “poeticamente”, alcune acquisizioni scientifiche di molto successive, gli antichi ricercarono anche la causa delle nostre ansie e i fondamenti di una possibile felicità con risultati che ancora oggi ci fanno riflettere.
Se Orazio con il “carpe diem” invitava alla “consapevole felicità” e Seneca spronava a non lasciarsi travolgere da eventi al di fuori del proprio controllo, qualche secolo prima Epicuro aveva fondato in Atene una scuola filosofica il cui scopo era scoprire come abolire la paura, assicurando la serenità.
Chi era Epicuro
Epicuro è un filosofo di età ellenistica. Nacque a Samo, da padre povero, nel 342 a.C., e morì ad Atene nel 270 a.C. Apprese la filosofia da un seguace di Democrito. Ad Atene, separato dalla casa aveva un giardino: lì insegnava. Facevano parte della scuola i suoi fratelli, i cittadini, ma anche schiavi ed etère. Era una scuola democratica. Epicuro aveva salute malferma, e condusse una vita semplice, anche perché non era ricco: provò sulla sua pelle sia la malattia che la povertà.
La disposizione d’animo di Epicuro era molto diversa da quella che oggi è associata comunemente col termine “epicureo” (anche gli antichi cadevano nello stesso errore, quando i biografi davano credito a diffamazioni). Epicuro, infatti, era tutt’altro che un gaudente o un nichilista sprecone. Era praticamente l’opposto: “un giardino, fichi, piccoli formaggi e insieme tre o quattro buoni amici: fu questa la sontuosità di Epicuro“ secondo Friedrich Nietzsche.
Dei numerosi scritti di Epicuro resta pochissimo, tre lettere più vari frammenti. Una di quelle, la “Lettera sulla felicità” destinata al discepolo Meneceo, la conosciamo grazie allo storico Diogene Laerzio, che la ricopiò nella sua Vita di Epicuro. Secondo il biografo, la migliore qualità di Epicuro era la filantropia: partendo dall’individuo, cercava di migliorare le condizioni di tutta l’umanità. La Lettera sulla felicità, del resto, si intitola Intorno alle cose riguardanti la vita (περὶ τῶν βιωτικῶν). È una summa della sua filosofia.
La “Lettera a Meneceo”: una guida alla serenità
Per Epicuro la filosofia è una terapia. Inoltre, la felicità è semplice e la si può conoscere a qualsiasi età: non è mai troppo tardi. Così esordisce nella lettera:
Meneceo, mai si è troppo giovani o troppo vecchi per la conoscenza della felicità. A qualsiasi età è bello occuparsi del benessere dell’animo nostro. […] Per sentirci sempre giovani quando saremo avanti con gli anni in virtù del grato ricordo della felicità avuta in passato, e da giovani, irrobustiti in essa, per prepararci a non temere l’avvenire.
Dal materialismo e dall’edonismo (sono reali solo le sensazioni corporee) Epicuro elabora una filosofia molto “pratica”. Il piacere è la felicità, il sommo bene. Ma cos’è il piacere?
Quando dunque diciamo che il bene è il piacere, non intendiamo il semplice piacere dei goderecci, come credono coloro che ignorano il nostro pensiero, o lo avversano, o lo interpretano male, ma quanto aiuta il corpo a non soffrire e l’animo a essere sereno.
Nella sua vecchia storia della filosofia occidentale, Bertrand Russell mette a confronto il desiderio di mangiare voracemente con la sensazione di piacevole sazietà che si prova dopo aver mangiato moderatamente. Quest’ultima è, per il filosofo britannico, la felicità secondo Epicuro.
Piacere e dolore
Il saggio, secondo Epicuro, cerca un piacere statico: la saggezza è equilibrio, assenza del soffrire. Perciò, al fine di assicurarsi ataraxia (assenza di turbamenti della mente) e aponia (assenza di dolori corporali) il piacere va inseguito con virtù, cioè con prudenza e consapevolezza. Queste qualità per Epicuro sono più importanti della filosofia stessa.
Per questo noi riteniamo il piacere il principio e fine della vita felice, perché lo abbiamo riconosciuto bene primo e a noi congenito. Talvolta conviene tralasciarne alcuni [piaceri] da cui può venirci più male che bene, e giudicare alcune sofferenze preferibili ai piaceri stessi se un piacere più grande possiamo provare dopo averle sopportate a lungo. […] Bisogna giudicare gli uni e gli altri in base alla considerazione degli utili e dei danni.
Bisogna anche saper rinunciare ai desideri vani. Difatti, l’ansia ha origine nella sproporzione fra il desiderio e la realtà, e nei falsi condizionamenti che ci fanno credere di aver bisogno del superfluo.
Non bisogna rovinare il bene presente col desiderio di ciò che non si ha, ma occorre riflettere che anche ciò che si ha lo si è desiderato. Niente basta a chi non basta ciò che è sufficiente. La scontentezza dell’anima porta l’uomo a desideri eccessivi.
Successo, lusso, denaro in eccesso tolgono la tranquillità, dunque producono sofferenza. Anche l’amore è una passione che turba l’equilibrio: a esso Epicuro anteponeva l’amicizia come valore supremo.
Perché non sono di per se stessi i banchetti, le feste, il godersi fanciulli e donne, i buoni pesci e tutto quanto può offrire una ricca tavola che fanno la dolcezza della vita felice, ma il lucido esame delle cause di ogni scelta o rifiuto, al fine di respingere i falsi condizionamenti che sono per l’animo causa di immensa sofferenza.
Vivere senza paura
La filosofia di Epicuro si propone di eliminare le fonti della paura. Nella lettera a Meneceo troviamo il quadrifarmaco, le quattro massime fondamentali del filosofo. Due di queste, “è facile procurarsi il bene“ e “è facile sopportare il male“, derivano dall’analisi dei desideri e dei piaceri di cui abbiamo parlato sopra.
Altre due sono dedicate alle due principali fonti di paura secondo Epicuro: il timore della morte e la religione.
Iniziamo da quest’ultima: secondo Epicuro, seguace dell’atomismo di Democrito con qualche variazione, l’universo sarebbe fatto principalmente di vuoto. Le divinità abiterebbero gli interstizi fra gli aggregati di atomi, nel vuoto infinito: gli dèi non hanno alcuna esperienza del mondo umano. Dunque non possono influire sulla tua vita con benefici o punizioni.
Gli dei esistono, è evidente a tutti, ma non sono come crede la gente comune […]. A seconda di come si pensa che gli dei siano, possono venire da loro le più grandi sofferenze come i beni più splendidi. Ma noi sappiamo che essi sono perfettamente felici, riconoscono i loro simili, e chi non è tale lo considerano estraneo.
Inoltre, per Epicuro temere la morte è un’insensatezza: è questa la parte più popolare del suo pensiero. Anche l’anima per Epicuro è fatta di atomi: quando muore, gli atomi si disperdono, l’anima diventa insensibile. Perciò:
Non esiste nulla di terribile nella vita per chi davvero sappia che nulla c’è da temere nel non vivere più. Perciò è sciocco chi sostiene di aver paura della morte, non tanto perché il suo arrivo lo farà soffrire, ma in quanto l’affligge la sua continua attesa. Ciò che una volta presente non ci turba, stoltamente atteso ci fa impazzire. La morte, il più atroce dunque di tutti i mali, non esiste per noi. Quando noi viviamo la morte non c’è, quando c’è lei non ci siamo noi. Non è nulla né per i vivi né per i morti. Per i vivi non c’è, i morti non sono più.
Ciò che interessa davvero a Epicuro è riconsiderare l’aldiqua della morte, la qualità della vita:
Ma come dei cibi sceglie i migliori, non la quantità, così non il tempo più lungo si gode, ma il più dolce.
Una simile saggezza non si acquista a buon mercato. E secondo Nietzsche, Epicuro è stato uno dei pochi uomini della storia ad aver assaggiato davvero la saggezza:
Una tale gioia l’ha potuta inventare solo un uomo che ha perpetuamente sofferto, la gioia di un occhio davanti al quale il mare dell’esistenza si è quietato e che non si sazia più di guardare la sua superficie, e questo screziato, tenero, abbrividente velo di mare: non era mai esistita prima di allora una tale compostezza della voluttà.
Puoi decidere da solo se è davvero così. Leggendo per intero la Lettera a Meneceo. È brevissima, quindi niente paura.
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