di Federico Divino, da “Medicina a piccole dosi” del 15 maggio 2020 – LINK
Che la scienza sia diventata la religione del nostro tempo, ciò in cui gli uomini credono di credere, è ormai da tempo evidente. Nell’Occidente moderno hanno convissuto e, in certa misura, ancora convivono tre grandi sistemi di credenze: il cristianesimo, il capitalismo e la scienza. Nella storia della modernità, queste tre «religioni» si sono più volte necessariamente incrociate, entrando di volta in volta in conflitto e poi in vario modo riconciliandosi, fino a raggiungere progressivamente una sorta di pacifica, articolata convivenza, se non una vera e propria collaborazione in nome del comune interesse.
Giorgio Agamben, La medicina come religione: 02/05/2020
È arrivata la tanto agognata fase 2. La pandemia sta finendo, o almeno così pare. La “fase 2” quantomeno segna una svolta, un nuovo capitolo di questa esasperante vicenda. Se c’è qualcosa su cui avrebbe dovuto farci riflettere questa recente esperienza di clausura forzata è sul ruolo dei medici e della medicina nella società moderna.
Ancora una volta (meglio ripeterlo per i disattenti), chi scrive non è un medico, ma un Antropologo della salute, non mi interessa dunque opinare su ciò di cui non ho competenze, ma sul pensiero medico e sul rapporto che una certa idea di medicina ha con la società avrei alcune riflessioni da fare, specialmente a seguito di questa esperienza.
Oggi più che mai è tornata alla ribalta quella macchina infernale chiamata “professionismo”. In una lettera a Ferenczi del 27 Aprile 1929, Freud descriveva il professionismo come “l’ultima e più pericolosa maschera assunta dalla resistenza alla psicoanalisi”. Sebbene io non voglia qui parlare di Freud, prendo ad esempio queste sue parole in quanto si riferivano ad un metodo al tempo rivoluzionario e profondamente osteggiato dalla classe medica che già allora, come ora, si nascondeva dietro la maschera della professionalità per giustificare ogni tipo di avversione e di attacco a ciò che usciva fuori dalle grazie dell’ufficialità.
Che cos’è il professionismo
Il professionismo è una forma di credenza generalizzata, per la quale colui che detiene determinati titoli ed abilitazioni è a prescindere dalla parte della ragione.
Durante questa crisi abbiamo assistito ad una vera e propria guerra tra esperti in cui su una cosa si concordava all’unisono: i profani debbono tacere. Questa è una faccenda “medica”, e dunque solo chi è titolato e riconosciuto come esperto nel campo della medicina ha il diritto di esprimersi, e ciò implica anche fornire considerazioni di natura politica, che vanno ad inficiare sulle libertà dei singoli. Sebbene sia ormai appurato che la comunità medica e scientifica non è monoliticamente d’accordo sulle direzioni da intraprendere (visto che si scannano ininterrottamente da due mesi), rimane comunque aberrante la progressiva privazione di libertà che si sta accettando in favore della delega all’esperto.
Chiariamo un punto fondamentale: è evidente che se mi devo far programmare un computer mi rivolgo ad un informatico e non ad un panettiere. Tuttavia, se e quando andarci, e soprattutto, a quale professionista rivolgermi, dev’essere solo ed esclusivamente un mio diritto inalienabile. Il professionista decide come agire, ma se agire lo decide il singolo. Allo stesso modo, il principio della democrazia che nessuno ha mai capito, non prevede certo che il popolo “ignorante” decida come fare una cosa, ma chiaramente ha il diritto di decidere se una cosa va fatta. Saranno poi gli esperti a realizzare ciò che si è comunemente deciso di attuare; meccanismo che mi sembra sempre meno comune nel mondo moderno. Oggi sembra che gli esperti abbiano assunto anche il diritto di decidere se una cosa debba essere fatta, escludendo dunque a priori il “cittadino” dalla discussione politica, anche se tale decisione alla fine ha delle conseguenze dirette sulla vita del cittadino.
Viceversa, dal punto di vista della medicina, l’unico titolato a decidere se sottoporsi ad una terapia, quale terapia ed in che modalità e tempistiche, è il malato. E non esiste parere di esperto che tenga. Se accettiamo come premessa di vivere in un mondo dove i singoli individui vengono considerati incapaci di decidere sulla propria salute, al punto che l’intromissione biopolitica debba decretare sulle loro vite, imponendo trattamenti sanitari obbligatori indiscriminati, allora accettiamo anche di vivere in uno stato totalitario. A me sembra che la gente si sia totalmente dimenticata di essere la sola titolata a poter decidere sulla propria salute.
Non si sta qui mettendo in discussione la figura del medico, ma la sua ingerenza in ambito privato. Chiaramente il singolo non sarà esperto quanto il medico, ma è comunque un suo diritto decidere se sottoporsi ad una terapia, come lo è quello di decidere a quale terapia sottoporsi. Due diritti che sembrano essere svaniti, il primo a causa della sempre maggiore imposizione governativa che spinge verso la creazione di un vero e proprio patentino di idoneità sanitaria, ed il secondo a causa della crescente omologazione interna alla comunità medica in favore di una narrazione falsa e del tutto costruita ad arte circa l’esistenza di una sola medicina “ufficiale”, monolitica e soprattutto efficace a priori, a sfavore delle tanto vituperate medicine tradizionali o meschinamente chiamate “alternative”.
Di chi è il mio corpo? Sono libero di gestirmi o sono una proprietà gestita da altri?
Quella che può sembrare una domanda retorica sta in realtà diventando il tema centrale del dibattito tra medicina e sociologia. Quanto sta accadendo dall’inizio di questa crisi ha evidenziato al massimo la pericolosa svolta autoritaria che la biopolitica sta prendendo servendosi, come scusa, della sicurezza sanitaria. Il principio fondamentale dei diritti del malato (voluntas aegroti suprema lex) viene annichilito in favore di uno stato che ritiene i singoli incapaci di intendere e di volere.
La biologia come ideologia totalitaria
Per quanto gli scienziati (o i non-scienziati che però si credono tali) si professino come l’alternativa alle barbare credenze primitive e tribali che usavano la religione e i miti per spiegare fenomeni che non riuscivano a comprendere, la fede nel fatto che esista un metodo valido per misurare la realtà, e che tale metodo, per quanto sia riduttivo e si basi su misure e valori solo arbitrariamente stabiliti (dunque tutt’altro che assoluti), abbia anche il diritto di infierire sulla libertà per imporre direzioni politiche, è a tutti gli effetti un fervore religioso.
Da antropologo, non rilevo alcuna differenza sostanziale tra il comportamento dei membri appartenenti alla più estremista delle sette religiose e quello di chi ha fede nella scienza e nel metodo scientifico.
Gli scientisti, così chiameremo i fedeli di questa nuova grande religione, non sono in nulla diversi da tutti gli altri credenti che ritengono di avere nella loro narrazione teologica il fondamento di verità ineffabili, e che per tale ragione perseguitano e reprimono i miscredenti che rifiutano la loro visione. La scienza è solo la versione più moderna, più estrema e repressiva di una setta religiosa. Come tale ha i suoi emissari-sacerdoti (gli scienziati), i suoi laici (che peraltro sono dei difensori ben più accaniti ed ossessivi della scienza di quanto non lo sia un tecnico che, vivendo la scienza tutti i giorni, è consapevole anche dei suoi limiti), ed i suoi dogmi di fede (se una cosa non è misurabile o rilevabile dagli strumenti della scienza allora non esiste), ma la religione-scienza manca di una cosa: pur avendo una sua demonologia (ora più che mai è evidente che, dal punto di vista delle credenze popolari, i microrganismi abbiano sostituito quelli che un tempo erano i demoni o gli spiriti maligni), non ha una teologia. La scienza manca di un dio in cima al pantheon, e questo perché essa è figlia del tecnonichilismo. La tecnica, come ci insegnava Severino, ha come unico scopo l’incremento indefinito della potenza della tecnica stessa, e se ciò spinge inesorabilmente verso il nichilismo, ben venga.
Essendo dunque la religione del nichilismo, la scienza è massimamente portata a servirsi del potere politico per far sì che gli intenti della tecnica (l’incremento indefinito della potenza) siano esauditi. Una medicina disumanizzante dunque è ciò che ci attende all’alba del mondo che si sarà risvegliato dopo la crisi del covid.
L’essere umano in quanto soggetto, dotato di una sua storia di vita, di simbologie, di emozioni, di sentimenti, dev’essere necessariamente ridotto ad una macchina, un oggetto, un funzionario di apparato, sostituibile da chiunque. Questa follia transumanista è stata resa possibile in primis dalla fede che gli stolti hanno nei confronti della scienza. Si potes, cape, si non potes, crede.
La narrazione biologista che prevede la riduzione di tutti gli aspetti umani a meri meccanismi biochimici è peraltro frutto di un dogma indimostrabile, una clamorosa petitio principii che parte dall’assunto di base che la manifestazione chimica sia la causa e non l’effetto dell’emozione. È solo un dogma di fede che fa dire agli scienziati che l’essere umano è vittima e non attore dei meccanismi biologici che hanno luogo nel suo corpo, e che dunque il corpo non sia ciò che Husserl chiamava Leib, il corpo della vita, ma sia Körper, un apparato, un insieme di pezzi, una macchina.
“Il fatto è che il Reich nazionalsocialista segna il momento in cui l’integrazione fra medicina e politica, che è uno dei caratteri essenziali della biopolitica moderna, comincia ad assumere la sua forma compiuta. Ciò implica che la decisione sovrana sulla nuda vita si sposti, da motivazioni e ambiti strettamente politici, su un terreno più ambiguo, in cui il medico e il sovrano sembrano scambiarsi le parti.”
Giorgio Agamben, “Homo Sacer”: 2018 p. 131
Andiamo davvero verso la biopolitica? Dopo le asserzioni fataliste ed estremamente tragiche di alcuni circa il pericolo autoritario scatenato dalla crisi del covid-19, molti si sono sentiti sollevati nel vedere che, in fin dei conti, la gente non sembra del tutto impazzita. Io stesso ho temuto che una simile crisi potesse minare una già compromessa spontaneità nelle relazioni sociali e trascinarci in un mondo di gente terrorizzata dal contatto umano. Si va per gradi, non mi aspettavo certo di vedere le strade deserte anche dopo la fantomatica fase due, anzi, sembra tornato tutto alla normalità, se non fosse per il piccolo dettaglio delle mascherine, che ormai chiunque indossa. Che siano utili o meno lo lasciamo decidere ai famosi esperti, certo è che questo loro utilizzo così esteso mi lascia non pochi dubbi. Il terrore del contagio c’è ancora. Ma questo basta a far sì che la gente accetti di buon grado che uno stato d’eccezione, ossia di temporanea sospensione dei diritti giustificata da una situazione emergenziale, diventi poi definitivo anche in futuro?
Fase 1: La norma e lo stato d’eccezione sono due condizioni differenti e opposte l’una a l’altra.
Fase 2: Si dichiara lo stato d’eccezione, che dunque appare ancora come dissonante nella percezione sociale che è ancora in grado di distinguere lo stato d’eccezione dalla condizione antecedente.
Fase 3: Il grado di esasperazione è tale che la società accetta di integrare lo stato d’eccezione alla nuova vita. L’eccezione diventa così la nuova regola.
Attenzione: lo stato d’eccezione (Ausnahmezustand) non è l’anomia, ossia l’assenza di norme, ma una condizione in cui una o più norme sono sospese o alterate, o se ne introducono di nuove che confliggono con i diritti garantiti dalle norme precedenti (le quali però per l’occasione vengono aggirate). Per Giorgio Agamben questo è il meccanismo con cui gli stati democratici si trasformano in regimi totalitari.]
Il controllo dei corpi è qualcosa che vogliono i “professionisti”, perché il cittadino singolo è troppo ignorante per poter decidere da solo su cosa sia meglio per la sua salute. È lo stesso ragionamento di chi si scaglia contro i “ciarlatani”, e che vorrebbe istituire ordini professionali su ordini professionali per impedire che i poveri bifolchi si rivolgano ai non-professionisti. Per quanto i venditori di fumo siano sempre esistiti, bisogna rilevare come negli ultimi anni l’etichetta di “ciarlatano” sia stata impropriamente applicata anche ad un numero consistente di dissidenti. Ormai non si è più ciarlatani solo se ci si millanta professionisti in un ambito di cui effettivamente non si sa nulla. Ciarlatano è diventato anche, e soprattutto, colui che, pur essendo esperto in un tale ambito (e magari ne è anche qualificato) si discosta dalla narrazione ufficiale e propone una visione alternativa. Nel culto scientista il dogma dell’ufficialità è ineffabile: ufficiale equivale sempre a “valido”, e dunque il dissenso viene rifiutato a prescindere. Il dissenso è trattato esattamente come un’eresia, è indegno anche solo di essere ascoltato. Al dissenso tutti i fedeli devono rispondere con l’unica voce del discredito. Ecco come la moderna religione scientista, spirito della biopolitica, oggi può permettersi, servendosi della medicina come scusa, di proporre idee aberranti come l’imposizione di trattamenti sanitari obbligatori a chiunque.
Questa è la fine della libertà in medicina, ma a quanto pare il consenso è praticamente unanime, visto che lo scientismo è la religione maggioritaria, è evidente che chiunque accetti questa narrazione. E ricordate che la guerra è pace, la libertà è schiavitù e l’ignoranza è forza. Ah, e soprattutto: la medicina non è democratica.
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